18 Ottobre 1994
Assemblea Parrocchiale
Relazione di don Bruno Forte sulla tematica di fondo del cammino pastorale di questi anni:
“Gesù Cristo al centro”
Introduzione del Parroco
Riuniti in assemblea ecclesiale abbiamo invocato la grazia del Signore sul nostro cammino nell’Eucarestia di giovedì scorso. Questa sera viviamo un altro momento significativo. In ascolto della Parola, saremo aiutati dalla riflessione autorevole e qualificante di don Bruno Forte, perché ci sia tracciato un itinerario. Il tema è: Cristo al centro
Oggi più che mai (e forse anche incoscientemente) c’è un gran bisogno di luce e una grande sete di Dio. Ma non sempre si cerca Dio nella direzione giusta.
In una società che esalta l’avere e l’effimero, ci si illude di trovarlo in falsi ideali.
La Chiesa, presente come lievito in questo mondo, non offre surrogati: annuncia Gesù come luce e riconosce in Lui la fonte che ha un’acqua che chi ne beve “non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò – dice Gesù – diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” ((Gv. 4,14) e che quindi può soddisfare ogni sete.
La Chiesa ha il potere di trasmettere la vita di Dio all’uomo ed elevarlo alla dignità di figlio di Dio. Perché partecipa della santità di Dio in Gesù Cristo. Perciò è santa!. E partecipando di questa santità, santifica il mondo.
Su “Avvenire” di Domenica scorsa Mons. E. Tonini, in occasione del 16º anniversario di elezione a papa di Giovanni Paolo II, in riferimento anche a quanto si sta riflettendo sul sinodo dei religiosi, fra l’altro ha detto: “La forza della Chiesa è la santità, l’efficacia sta appunto nella fedeltà alla forza santificante che si porta dentro”. E poi si è domandato (riferendosi ai religiosi, ma per estensione si può applicare il riferimento anche a noi): “e che sono le vite consacrate se non i testimoni che Cristo è tuttora in azione all’interno della Chiesa, appunto per comunicare la santità e per renderla visibile attraverso le esistenze assimilate completamente a Lui?”.
Essere fedeli alla forza santificante della Chiesa, “renderla visibile”, “ed essere testimoni che Cristo è tuttora in azione”. Queste espressioni mi sono sembrate la sintesi più felice del tema: “Cristo al centro”, e di quello che deve significare un cammino che rivela Cristo alla società di oggi.
Vogliamo, però, mettere sotto esame innanzitutto noi stessi, verificare la nostra fede: se davvero Gesù Cristo è la nostra luce, la fonte che disseta la nostra sete; se è al centro della nostra vita, se tutto nella nostra vita ruota nella sua orbita.
La scelta di don Bruno non è casuale. Sappiamo come Cristo è il centro della sua vita.
Egli è in mezzo a noi come maestro: si nutre continuamente del mistero di Dio, che cerca di penetrare con fede e con intelligenza non comune, in costante atteggiamento di ascolto nella preghiera.
E’ in mezzo a noi come testimone: crede in quello che dice e dice quello in cui crede con chiarezza e semplicità.
Ma è soprattutto in mezzo a noi come amico e fratello. Vogliamo, pertanto, essere provocati dalla sua fede e dal suo amore per Gesù.
Lo ringraziamo per quanto ci donerà.
Relazione di don Bruno Forte
Ringrazio Dio innanzitutto per questa occasione che mi è data di essere stasera con voi, ma bisogna che ringrazi anche delle persone singole, in modo particolare Padre Luigi che vedo in fondo, perché resta comunque parroco emerito di questa comunità; ringrazio Don Enzo il parroco e pastore, ringrazio Giulio e Massimo e poi vorrei continuare con tanti nomi che vedo legati ai tanti volti amici cari che stasera sono qui, ho ringraziato Dio perché in Lui il ringraziamento raggiunge tutti e ciascuno e dispone ognuno a quella attesa, a quell’ascolto della verità che libera subito da ogni distanza. Io sono in mezzo a voi come un fratello nel cammino della fede e come un teologo; le due cose non sono poi così diverse perché io penso che il teologo abbia nella chiesa il compito che hanno avuto gli esploratori della terra di Canaan, quando, giunti finalmente dopo il lungo cammino dell’esodo alle porte della terra promessa, sono stati mandati da Mosè a esplorarla, sono tornati portando il grappolo d’uva, il melograno, il fico e hanno acceso il desiderio della conquista, di tale terra ricca di frutti belli, benedetti da Dio, ma non hanno nascosto la difficoltà dell’impresa.
Ecco il compito dei teologi nella chiesa: sono dei compagni di vita, di fede, di cammino del popolo dei pellegrini di Dio. Il loro compito, con la fatica del pensiero, nutrita dalla preghiera, è scrutare l’orizzonte (procedere qualche passo avanti) verso la terra della promessa di Dio, ma non per sé soltanto bensì per tornare nella comunità dei pellegrini di Dio portando i segni della speranza, accendendo il desiderio della conquista, non nascondendo la difficoltà dell’impresa.
Questo è quello che io stasera vorrei fare con voi, vorrei mostrarvi il grappolo d’uva, il fico, il melograno, vorrei accendere il desiderio in me, in voi sempre più ardente di questo andare verso la terra della promessa di Dio, di questo sentirci pellegrini del nostro tempo, ponendo al centro Lui, il Cristo che ci precede e ci accompagna sulla via di Dio.
Per dare subito, quasi in maniera compendiosa il centro e il cuore del messaggio che vorrei trasmettervi, vorrei aprire questa mia riflessione con una scena che prendo da un libro di Dostoievskij e precisamente “L’idiota”.
Quest’opera è considerata la cristologia di Dostoievskij, di questo grande testimone della letteratura mondiale oltre che della fede in Cristo. Ebbene “L’idiota” il principe Miskin è la controfigura di Cristo, è l’innocente che soffre per il dolore del mondo, incapace di fare il male, incapace di pensare il male; egli sa soltanto amare, accogliere, perdonare. Vive in un mondo invece dove tutto è calcolo, è violenza, è sopraffazione; il principe Miskin passa in questo mondo come l’innocente destinato al martirio, colui che viene caricato dei nostri peccati. C’è un momento cruciale nell’Idiota di questa sconvolgente testimonianza sul Cristo in cui il principe Miskin è seduto accanto al letto di un giovane morente. Questo giovane che si chiama Hyppolithe, è un ateo come si diceva in quel tempo, un nichilista uno che non crede in Dio, ha vent’anni soltanto vent’anni e sta morendo di tisi. Ad un certo momento il giovane si volge verso il principe e gli dice: “Principe voi avete detto una volta che la bellezza salverà il mondo; principe quale bellezza salverà il mondo?”
Miskin resta in silenzio, incapace di dire anche soltanto una parola, lì accanto al letto dove quel giovane di vent’anni che non crede in nulla sta morendo. Il senso della lettura della pagina di Dostojevski si chiarisce subito se noi pensiamo ad un altro colloquio in cui l’innocente, un condannato è davanti al Procuratore romano della terra d’Israele, il quale gli chiede che cos’è la verità e il prigioniero come il principe Miskin resta in silenzio. Il significato è questo: la verità non è qualcosa, ma è Lui, quel prigioniero, la bellezza che salverà il mondo non è qualcosa è Lui, è l’innocenza del principe davanti al dolore del mondo, è la sua incapacità di volere il male, di pensare il male. Solo quella bellezza salverà il mondo, anche se agli occhi della logica, le cause, i progetti di questo mondo, tutto questo appare follia, nonsenso.
Questa sera vorrei tentare con voi di rendere ragione di quel silenzio, del silenzio di Gesù davanti a Pilato. Che cos’è la verità? Del silenzio del principe Miskin davanti alla domanda del giovane morente. Quale bellezza salverà il mondo?
Cercherò di farlo attraverso tre momenti di un itinerario di riflessione, un itinerario in cui evocare piuttosto che non totalmente rispondere alle domande che tenteremo di porci.
Il primo momento è intitolato “la verità e la maschera”.
E’ un tentativo di leggere il nostro presente. Dove siamo? Chi siamo? Che cosa sta succedendo intorno a noi? In noi?
Il secondo momento è invece un andare al centro, al cuore, Cristo, la verità: E’ un tentare di fare memoria del Salvatore, ponendolo al centro della nostra riflessione, della nostra fede, del nostro cuore.
Il terzo momento Cristo al centro, discepoli della verità, testimoni del mondo.
E’ un tentativo di dire che cosa significa mettere insieme queste due cose, questa lettura del nostro presente e questa memoria del Salvatore che è venuto per noi per amore nostro a portare la luce.
Il primo momento. Dove siamo? Che cosa sta succedendo intorno a noi, in noi?
Vorrei per rapide pennellate evocare l’inizio del nostro presente: Noi siamo tutti figli di una stagione che con un termine grosso, impegnativo, abbiamo chiamato L’Illuminismo, tutti coscienti o non coscienti, noi veniamo dall’età adulta del mondo, cioè da quest’epoca iniziata con la svolta del pensiero segnata da Descartes e dall’illuminismo tedesco e francese e poi dal grande evento dell’89 della Rivoluzione francese. Qual è il messaggio profondo dell’Illuminismo che segna il destino dell’età moderna nell’Occidente europeo e di cui tutti noi siamo figli?. Il vero messaggio dell’Illuminismo si può compendiare con una parola, immensamente amata da uno dei grandi testimoni della modernità Karl Marx: Emancipazione. Karl Marx definiva così l’emancipazione: emancipazione significa riportare il mondo e tutti i rapporti umani all’uomo come soggetto di storia. Emancipazione significa che l’uomo non è più oggetto della storia, ma ne diventa il protagonista, il signore, emancipazione significa pensare con la propria testa, avere il coraggio delle proprie scelte, essere pronti a costruire noi il mondo e quindi anche a portarne il peso, pagarne il prezzo. Il sogno emancipatorio è in fondo il sogno della libertà. Pensate ai grandi processi di emancipazione che hanno attraversato questi due secoli: l’emancipazione dei popoli e delle classi oppresse, l’emancipazione della donna che è uno dei segni focali dell’epoca che noi viviamo. Tutti processi che purtroppo direi, in realtà, sono soltanto iniziati sono addirittura a volte interrotti, ostacolati, se solo pensiamo alla situazione dei rapporti mondiali tra il nord e il sud del mondo. Ma la profonda anima dell’Illuminismo è stata nell’accendere, nel cuore degli uomini, questo sogno dell’emancipazione, questo mettere il mondo finalmente nelle mani dell’uomo. La formula dell’Illuminismo è questa: “Sapere, aude” Abbi il coraggio di conoscere, di pensare con la tua testa, sii tu il padrone del tuo destino, non restare nella dipendenza di chi non ha il coraggio della libertà.
Ebbene questo grande bisogno di luce, ecco la metafora dell’Illuminismo, bisogno di illuminare tutto, di capire tutto, di pensare tutto per non avere tenebre, notte, oscurità che blocchino il cammino della libertà, si traduce in una straordinaria fiducia nella ragione umana. Essere moderni significa credere nella potenza della ragione, in quello che la rivoluzione francese chiamerà “L’ordre de la raison” l’ordine della ragione. La ragione può spiegare il mondo, può capirlo, può pensarlo, può trasformarlo e l’avversario della ragione non utilizzando la testa, è degno della punizione emblematica, la ghigliottina, che può appunto tagliare quella testa che non serve. Il sogno della emancipazione è il sogno della ragione adulta.
Tutto questo fa nascere quello che noi abbiamo chiamato ideologia. Che cosa è l’ideologia? L’ideologia è una visione totale del mondo, che vuole spiegare il mondo, la vita, la storia soltanto con le armi della ragione, che vuole governare la storia razionalmente programmando, progettando e al fine unico, grande, esaltante di emancipare i poveri, gli oppressi, gli sfruttati, tutti coloro che non sono soggetti, ma oggetto della loro storia.
Ecco il grande fascino della modernità, ed ecco il grande trionfo delle ideologie che hanno fatto la storia della modernità, dall’ideologia rivoluzionaria, il marxismo, per eccellenza l’anima di tanti processi di trasformazione storica, alle ideologie di destra, che da questo punto di vista sono identiche nella genesi al processo da cui nasce il marxismo cioè sono visioni motivate, razionali, del mondo per trasformare il mondo con la potenza della ragione umana. Qual è il dramma? Che l’ideologia dà un’ebbrezza, io la chiamo l’ebbrezza del senso, cioè l’ideologia ti spiega tutto, ti fa capire tutto, almeno nelle sue premesse.
Chi di noi non è più tanto giovane sentirà nelle mie parole una storia che è stata anche la nostra storia. Chi di noi non ha cavalcato in qualche modo il fascino, i modi ideologici che lo hanno attratto, chi di noi non ha sentito in certi momenti il desiderio di una passione per la giustizia, per l’emancipazione che in qualche modo si veicolasse attraverso un progetto ideologico capace di cambiare la storia?. Questa visione totale del mondo nel realizzarsi storico diventa inesorabilmente totalitaria. Questo è il vero dramma dell’ideologia: essa nasce da una sete profonda di emancipazione, di libertà, di giustizia, di verità, poiché pretende di soddisfare questa sete con una ragione totale capace di spiegare tutto, ogni ideologia, diventerà inesorabilmente totalitaria. E’ stata la parabola di tutti i processi ideologici della modernità, non soltanto del marxismo con la parabola di ascesa, di dominio, di decadenza che culmina nel secondo ’89, il 1989 della caduta del muro, ma è stata la parabola di tutti i modelli ideologici che la modernità ha espresso. La visione totale del mondo diventa totalitaria e quindi violenta; il mondo, cambiato quel concetto, deve essere adeguato al concetto, allora è giustificato fare violenza sulle persone, sulle cose, perché questa violenza significa portare le persone e le cose al sogno dell’emancipazione.
Ecco perché due autori, fuggiti dalla Germania nazista, scrivono durante la guerra un libro profetico, che si chiama “Dialettica dell’Illuminismo”, crisi della ragione illuministica; i due autori sono Horkheimer e Adorno, e aprono questo libro pubblicato nel 1946 con queste parole per capire le quali molti dovranno aspettare il 1989, cioè circa quarant’anni, anzi più di quarant’anni: La tesi di questo libro è la seguente: “La Terra interamente illuminata risplende di sventura”. Che drammatica profezia del destino dell’ideologia. Le ideologie che avrebbero dovuto salvare il mondo, cambiarlo, hanno prodotto alienazione, dolore, morte, certo hanno portato avanti una carica di desiderio emancipatorio a quale prezzo però; ed è questo allora l’inizio del nostro presente. Noi tutti figli della ragione moderna siamo anche tutti figli della crisi di questa ragione, siamo tutti figli della crisi delle ideologie, siamo tutti figli di questo sogno infranto, di questa speranza delusa, di quest’ebbrezza del senso che è crollata di fronte alla glasnost, cioè alla trasparenza che ci ha fatto vedere come la realtà che si voleva cambiare non era cambiata anzi si era prodotta tanta alienazione, tanto dolore e tanta morte. Ed allora che cosa si produce in questo crollo di ideologie, in questa crisi del sogno emancipatorio?.
Si fa luce quel processo che viene definito la crisi del senso, la caduta del senso.
Vent’anni fa due giovani si sarebbero scontrati per la passione ideologica, oggi trovare un giovane che abbia passione ideologica significa quasi andare allo zoo a vedere un animale raro.
La vera malattia del tempo presente non è più l’ideologia come poteva essere fino a qualche anno fa, è l’indifferenza, è la caduta del senso, non c’è più nulla per cui valga la pena di combattere, di sperare, di amare; è la crisi del senso.
Non la crisi del valori, come spesso si dice, perché parlare di crisi di valori significa credere ancora nei valori sebbene in crisi, ma l’indifferenza, che è qualcosa di molto più profondo e delicato, in altre parole è il perdere non solo un senso alla vita, ma il perdere il gusto a porci la domanda sul senso.
Per cercare il senso devi porti la domanda: “Che senso ha la mia vita?”. Quando il gusto in questa domanda non ti affascina, quando tu non senti più dentro la febbre per pagare di persona pur di dare alla tua vita una dignità, un senso, la bellezza, allora comincia questa malattia mortale che è il nichilismo come si dice, l’ideologia, il pensiero debole, la rinuncia cioè a dare alla tua vita un significato.
Gianni Vattimo, uno dei maestri di questo pensiero debole, dice che il tempo che noi stiamo vivendo è il tempo della contaminazione. Tutto ci appare sporco, contaminato, insignificante; è il tempo della fruizione, tanto vale bruciare l’istante e godere il possibile. E’ il tempo della frustrazione: alla fine si resta più vuoti di prima. E’ la civiltà delle immagini che con prodigalità televisiva bombarda le nostre case, le nostre menti, i nostri giovani, diffondendo questo messaggio del nulla, questo trionfo del non senso, questa caduta del senso. Io prima avevo pronunciato una parola severa; tutto questo io lo chiamo, con una parola ricca di significato della storia culturale dell’Occidente, decadenza, “décadance”. Che cos’è la decadenza? La decadenza non è l’assenza di valori o la negazione di valori, perché quando tu neghi un valore ti appassioni, lo lotti, lo combatti in nome di un altro. La decadenza è questo sorriso che deve coprire tutto, questa maschera per nascondere i problemi reali facendo finta che tutto vada bene, questo messaggio rassicurante che dice non vi preoccupate, ci sono io che ci penso. Questa è la decadenza, cioè l’assoluta mancanza di passione per la verità e per la giustizia, l’assoluto crollo di verità, in altre parole il nichilismo della decadenza è molto più pericoloso dell’ideologia, perché l’ideologia tu la combatti, è un avversario, ci credi o non ci credi, ma la decadenza non si lascia combattere, perché tu gli dici “così non va”, quello dice “ah, senz’altro, facciamo come tu vuoi”, e poi naturalmente non lo fa. La decadenza è la finzione eretta a sistema, è l’inganno diventato strumento di potere, e non a caso la decadenza si diffonde e si impone attraverso l’immagine, cioè la maschera, la televisione, il bombardamento, il lavaggio del cervello televisivo. Questa è la décadance, l’assoluta mancanza di passione per la verità. Tu per un’ideologia puoi anche morire; stai certo che per la decadenza non c’è nessuno disposto a morire, l’importante è fare i propri interessi, però mettendoci davanti la maschera con la quale si vuol far credere agli altri che si fanno gli interessi di tutti. Non importa se a pagare sono i più deboli, sono i più poveri, e che invece a rafforzarsi in questo sistema siano quelli che stanno meglio, ma questa è la decadenza.
Davanti a questo clima si ha un momento pericolosissimo della nostra storia, della nostra cultura. Davanti a questa situazione Sartre diventa profeta; egli scrive un libro, “L’être de rien”, L’essere di nulla, nel quale ci dice due cose fondamentali: primo, l’uomo è una passione inutile, cioè che nulla ha senso. “L’homme est une passion inutile”. Questa è la parola conclusiva di “L’être de rien” di Sartre. Ma allora che senso ha la vita, perché è inutile? Risposta di Sartre: tutto è maschera. E per convincerci della sua tesi lui sceglie gli esempi più alti, più nobili: l’amore, l’amore è una grande maschera, perché in realtà, quando tu ami una donna, tu non vuoi altro che la sua distruzione, per affermare il tuo piacere, e viceversa. L’altruismo è una maschera, la maschera con la quale tu vuoi ingannare te stesso facendo finta che tu sei buono. I valori: una maschera, quella che nobilita il tuo nulla, per soddisfare il tuo egoismo. Questa è la visione di Sartre, ma questa è esattamente la décadance, cioè vivere il nulla mascherandolo di perbenismo, di eleganza, di sorriso distribuito con televisiva prodigalità.
E’ davanti a questa situazione che noi ci chiediamo: “ma stanno proprio così le cose?”
Quando voi sentite i giovani di diciotto, diciannove anni, neanche chissà di quale livello di strettezza economico, sociale, ma anche della normale borghesia, che vi dicono “i poveri sono privilegiati, perché loro non pagano le tasse, perché loro hanno le medicine gratis”, voi vi rendete conto a che livello di perversione della coscienza stiamo portando questo nostro paese.
Davanti a questo, noi abbiamo bisogno di una resistenza, non fatta con le armi della violenza, con le armi del nulla e dell’ideologia, ma di una resistenza che parta da un altro orizzonte, da un’altra patria. Noi abbiamo bisogno, in questo scenario del trionfo del nulla e della maschera, di cominciare a individuare le tracce, i segnali della patria perduta. Un grande filosofo, forse il più grande filosofo del nostro secolo, Martin Heidegger, apre una pagina straordinaria in cui dipinge così la situazione che stiamo vivendo; la definisce “la notte del mondo”, e dice: “che cos’è la notte del mondo? Non è la mancanza di Dio, ma è il fatto che gli uomini non soffrano più di questa mancanza”. Cioè la vera notte del mondo non è che non c’è Dio, che non ci sono i valori, ma che agli uomini non gliene importa niente, tanto l’importante è vivere l’istante e fruire, possedere, dominare. Questa è la vera notte del mondo; con un’espressione molto bella, molto densa, Heidegger la chiama “Heimatlosigkeit”, cioè l’assenza di patria. E’ come se gli uomini non avessero più una patria, un orizzonte verso cui arrivare, per cui sperare, amare, per cui soffrire.
Mi viene in mente una parabola rabbinica, che racconta di un vecchio rabbino, a cui vanno dei giovani e gli chiedono: “Rabbi Salomon, quando è cominciato l’esilio d’Israele?” E il vecchio rabbino risponde: “L’esilio d’Israele è cominciato il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio”.
L’esilio non comincia quando tu lasci la patria: l’esilio vero comincia quando tu non hai più il desiderio della patria perduta, la nostalgia della patria perduta; fuor di metafora il vero dramma non è quando tu non hai più valori, ma quando tu non hai più il desiderio di cercarli; il vero dramma non è quando tu non hai Dio, ma quando tu non hai più il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio, quando tu sei diventato indifferente a tutto, e allora mascheri tutto questo nel bonario sorriso universale, con cui tutto deve sembrare luminoso e pacifico, tutto accettabile, tanto non c’è nulla per cui valga la pena veramente di combattere e di dare la vita.
La domanda che io porrei è: “ma c’è qualcuno, qualcosa per cui tu daresti la vita?” La domanda è suprema!. Non a caso un grande pensatore ha detto che l’unica vera questione filosofica è il suicidio. E’ vero, perché l’unica vera domanda è trovare le ragioni per cui valga la pena di continuare a vivere, a vivere insieme. E allora è su questo scenario della décadance, della decadenza, ma insieme anche dell’inquietudine, perché noi sentiamo l’insoddisfazione di tutto questo, perché anche chi in buona fede ha creduto al sogno rassicuratorio comincia a svegliarsi e a sentire che qualcosa non va, che c’è bisogno di una reazione morale, che dobbiamo cambiare. C’è una sete dell’altro, sia con la a maiuscola, come ultimo orizzonte, ultima patria. Voi vi accorgete negli ambienti, nei contesti più diversi che comincia a riemergere questa sorta di desiderio di ricerca; c’è un bisogno dell’altro, dell’altro umano, dell’altro concreto. Diceva una persone cui voglio molto bene, Arturo Paoli, e questo profeta che vive in una favela del Brasile, disse ai giovani che gli avevano fatto la domanda: “ma tu sei felice?”. E lui, quest’uomo di ottant’anni risponde:: “ci sono due tipi di felicità nella vita. C’è la felicità di consumazione, che è quella di chi è felice perché raggiunge ciò che voleva, lo consuma, ma dura poco, dura l’istante in cui tu consumi ciò che volevi, e dopo ti lascia un vuoto, e c’è la felicità di produzione, che è quella di chi vive per fare felici gli altri; questa è la felicità che non passa”, e aggiungeva: “io credo di essere felice, perché quando mi alzo al mattino mi vengono subito in mente i volti delle persone per cui valga la pena di spendere la mia vita, delle persone che amo, che mi amano, che hanno bisogno del mio amore, cioè qualcuno per cui vivere, per cui dare la vita, e il volto ultimo è quello di Gesù, che si affaccia nei tanti volti del prossimo”.
Vengo ora alla seconda parte di questo itinerario: Cristo, la verità. Io vorrei parlarvi di Lui con dei flash, quasi in una sorta di pellegrinaggio attraverso il racconto della storia della sua vita. Vorrei lanciarvi cinque idee, cinque testimonianze su Cristo, la verità.
La prima: che cos’è la verità? e: il silenzio di Gesù. Che cosa voglio dire con questa prima immagine? Noi non crediamo in una verità che sia qualcosa, noi non crediamo neanche in una verità che sia un valore astratto, un’ideologia o una dimensione del nostro spirito. Noi crediamo che la verità è Qualcuno. Questa è la vera, grande novità del Cristianesimo; al centro non c’è qualcosa, né c’è una dottrina, fosse pure la più bella ed elaborata di questo mondo, al centro c’è Lui, una persona. Questo significa che per il cristiano la verità non è qualcosa da possedere per cui io la posseggo e allora divento il padrone, il maestro della verità. La verità è qualcuno da cui lasciarci possedere. Della verità si può essere soltanto discepoli, non padroni. La verità non è qualcosa che tu puoi mercanteggiare, è qualcosa cui tu devi obbedire, non è qualcosa rispetto a cui puoi giocare con una tua intelligenza, è qualcuno cui tu devi arrendere la tua intelligenza, il tuo cuore. Questa è la verità, è Lui, è il Cristo, tutt’altro che la maschera. C’è un’altra scena di Dostoievskij “nei Fratelli Karamazov”, in quel racconto di una delle pagine più alte della storia, della spiritualità, della letteratura mondiale, “La leggenda del grande inquisitore”. La scena è questa: a Siviglia al tempo dell’inquisizione viene visto un uomo che sta sulla piazza ad osservare in silenzio il luogo dove ardono i corpi degli eretici, bruciati sul rogo. Quest’uomo viene portato davanti al vecchio cardinale inquisitore, il quale comincia a interrogarlo, “chi sei?”. Quest’uomo tace, notate il silenzio ritorna sempre in questi racconti. Ebbene il cardinale inquisitore capisce chi è l’uomo; sapete chi è? è Cristo, e allora che cosa gli dice il cardinale inquisitore: “vattene, perché sei venuto a disturbarci? Tu non hai diritto di disturbarci”.. Cristo se ne va in silenzio. Qual è il senso? Il cardinale inquisitore ama gli uomini, ed ha capito una cosa che vale per gli uomini di tutti i tempi: che gli uomini non amano la libertà, perché la libertà è faticosa, costringe a pensare, a scegliere, a soffrire. Gli uomini vogliono quelli che ti mettono il collare, il guinzaglio, che ti dicono che tutto va bene, che vogliono loro pensare al tuo posto. Il cardinale inquisitore vuol fare così, perciò brucia gli eretici sul rogo, per dare certezze agli uomini che sono così deboli, così bisognosi di schiavitù. Ma Cristo non è venuto per questo nel mondo, Egli è venuto per renderci liberi, ce lo dice il verso di Colossesi 1,13 “Egli ci ha liberati”. La verità del Cristo non è una verità comoda dove tutto è spiegato, che tu possiedi, con cui poi puoi fare violenza sugli altri, perché gli altri non ce l’hanno. La verità del Cristo è Lui, per cui tu non avrai mai il diritto di dire “io lo posseggo” e quindi posso poi giudicare gli altri.
Ecco perché nella Chiesa, pur nella varietà dei misteri, siamo tutti dei poveri servi, dei discepoli dell’unico maestro, dal Papa fino al più piccolo battezzato siamo tutti solo servi. E’ Lui, il Cristo, il Signore e il Maestro, è Lui solo la verità. Ecco allora questo primo messaggio: la verità non è qualcosa che si possiede, ma qualcuno che ci possiede. Della verità si può essere solo ascoltatori, discepoli, perdutamente innamorati, obbedienti che consegnano il loro cuore e la loro vita. Diceva Lorenzo “io sono un credente”; ma secondo i medievali credere significa “cor dare”, cioè uno che dà totalmente il cuore, lo dà a Cristo perché Lui ne faccia quello che vuole.
Secondo: Gesù è la verità perché Gesù è la parola uscita dal silenzio. Giovanni 1,14: “il Verbo si fece carne”, perché Lui è il punto di incontro tra il nostro esodo, cioè questo cammino continuo fuori di noi verso il futuro di Dio, e l’Avvento di Dio. Cristo è la parola. Ma che cosa significa veramente che Cristo è la parola? Significa che in Lui, soltanto in Lui ci è dato l’accesso al mistero, e che non basterà la vita per ascoltare quella parola. Il cristiano discepolo della verità è l’uditore della parola, cioè egli per tutta la vita dovrà sentire la passione di scrutare nella parola di Dio, Gesù, il silenzio da cui la parola proviene. Non pronunciare vuote parole, cammina lungamente in sentieri del silenzio; ma come e dove? obbedendo alla parola di Dio, partendo dalla parola di Dio. Io vi sto dando un metodo di lettura della Scrittura; che cosa significa leggere la Bibbia per il cristiano? Non significa leggere e ripetere, ma camminare lungamente in quelle parole fino a raggiungere l’abisso del silenzio da cui esse nascono. Questa è la lectio divina, questa è la nominatio verbi, questa è la lettura spirituale della Bibbia, cioè un mettersi ai piedi della parola per lasciarci raggiungere e scrutare, camminare in essa e andare verso le profondità di Dio. Cristo è la parola, cioè è la porta che ci conduce verso l’abisso del silenzio di Dio; è il luogo in cui si compie l’Avvento dell’altro, il mistero ci parla, ci raggiunge. Se essere cristiani quindi significa lasciarsi possedere da Lui, significa ascoltare la parola, diventare uditore della parola.
Terzo: Gesù, il cammino della libertà. Nella sua storia Gesù è stato l’uomo libero, cioè è stato colui che non ha avuto paura della libertà come noi abbiamo paura della libertà. Cristo ha accettato di vivere fino in fondo la sua vita come un cammino di libertà. Ma che cos’è la libertà? Ce lo ha detto Agostino interpretando il testo delle tentazioni di Gesù, dice: “C’è un’unica vera scelta, l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé”. Questa è la vera scelta, cioè o tu accetti di essere libero da te, libero per amore di Dio e degli altri, accetti di vivere una vita nella quale al centro non c’è il tuo io ma c’è Dio e quindi di essere perdutamente perduto da te stesso, in esodo da te stesso, di uscire continuamente da te per andare non dove avresti voluto, pensato, ma dove Dio domanda a te, oppure tu anneghi nel tuo ruolo e ti costruisci la maschera e diventi complice di quelli che vogliono nascondere la verità coprendola col sorriso della maschera. Cristo ci vuole liberi; c’è una parabola rabbinica che parla di una città in terre lontane dove scorre un fiume, e questo fiume è così pigro che il giorno di sabato, il giorno santo per gli Ebrei, cessa di scorrere perché rispetta il sabato, e allora dice la parabola: se questo fiume veramente esistesse potete star certi che tutti gli Ebrei di quella città osserverebbero scrupolosamente il sabato, davanti a un segno del genere capirebbero che bisogna fare le cose per bene e, al di là della metafora, se avessimo tutti segni di questo genere, forse le nostre chiese la domenica non basterebbero più, tanto che sarebbero piene di cristiani che vengono a messa. Allora la domanda diventa: perché Dio non ci dà questi segni? Perché Dio non ci richiama ogni tanto con dei segni che ci facciano scoprire l’assoluto bisogno di rispettare lo shabah, di adorare Dio nel settimo giorno?
Risposta: perché Dio ha paura delle inevitabili conseguenze, che così i più pii sarebbero i più pavidi, e Dio vuole per sé soltanto uomini liberi. Dio non ci vuole imporre il giogo, Dio ci chiama a libertà. Cristo è un uomo libero da sé per Dio, e vuole che noi siamo donne e uomini liberi; la nostra passione per la causa di Cristo noi non la portiamo avanti perché così sta bene o perché ce lo dice il sacerdote, noi la portiamo avanti perché ci giochiamo la nostra vita, la nostra libertà, perché abbiamo capito che l’unica cosa per cui valga la pena di vivere è perdere la propria vita per Lui e per il Vangelo; e se non abbiamo capito questo non siamo cristiani adulti, siamo un popolo di pecore in cerca di guinzaglio e di maschera. Siamo donne e uomini liberi, questo ci dice Cristo.
Quarta tappa: Gesù, l’abbandonato, il crocefisso, l’uomo. Chi è Gesù? Gesù è colui che ci ha amato fino alla fine; Galati 2,20: questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e consegnato a sé stesso per me. Umile e abbandonato, questa è la verità: un povero crocefisso appeso ad una croce, per muovere la vergogna del venerdì santo, della sconfitta e della perdita del tutto, di tutto. La verità nel Cristianesimo è questa buona novella, che Lui è morto per l’uomo, e questo va preso fino in fondo sul serio. C’è un testo straordinariamente bello di Sant’Ignazio di Loyola, dove Sant’Ignazio ci spiega i tre gradi dell’umiltà, e dice: “il primo grado dell’umiltà….”.,e in genere tutti vediamo di accontentarci di questo, resta ancora ai margini di ciò di cui noi stiamo parlando, non ha messo Cristo al centro. C’è un secondo grado dell’umiltà, dice Sant’Ignazio, che è questo: è l’indifferenza per ricchezza o povertà, cioè è la disponibilità del nostro cuore ad andare dove Dio vorrà permettere, in una totale, perduta consegna del nostro cuore a Lui. E’ l’affidarci così completamente a Dio da voler essere suoi sulle vie che Dio preparerà per noi; Padre, se è possibile passi da me questo calice, tuttavia non ciò che io voglio ma ciò che vuoi Tu. Questo è il secondo grado dell’umiltà, l’abbandonarsi alla volontà di Dio. C’è infine un terzo grado dell’umiltà, dice Sant’Ignazio di Loyola, che è quello di seguire Gesù abbandonato, umile, crocifisso, di amare il nascondimento, la povertà, la croce più di ogni altra cosa, per essere come Lui, di voler dare la nostra vita per Lui, per il Vangelo, per gli altri. Questa è la santità, è la via su cui un Francesco d’Assisi arriva ad una unità così profonda col crocefisso che le stigmate di Lui si infiggono nella carne di Francesco. E’ la via dell’assegnazione totale a Gesù abbandonato; la verità per noi è Lui. Non vi illudete. Chi vuol seguire questa via della verità deve profilarsi il cammino della croce: abbandonati perdutamente a Lui. “Parla, Signore, perchè il tuo servo ti ascolta” (1 Sam. 3,9).
Quinta ed ultima tappa: Gesù è risorto, è il Signore della vita, è colui che ci dice che l’ultima parola non è la morte, ma la vita, “Tu solus sanctus, tu solus Dominus, tu solus altissimus”. Gesù ci dice che anche se noi non lo capiamo alla fine è l’amore che vince, è Dio che vince. Vedete, quando mi pongono la vera domanda, sapete che di domanda ce n’è una sola che è vera, le altre son tutte ripetizioni di quest’unica domanda, ed è la domanda del dolore dell’uomo: perché il dolore? Quando mi pongono questa domanda vera “Principe, quale bellezza salverà il mondo?”, io dico sempre di non avere una risposta, perché se l’avessi avrei qualcosa in più di Gesù che è rimasto in silenzio davanti a Pilato, del Principe Miskin che è rimasto in silenzio davanti al giovane che muore, tuttavia di sapere che c’è un luogo dove questa risposta è custodita; dov’è la custodia del senso della vita, la custodia del senso del dolore umano, la custodia che vince la morte? La risposta è una sola, è in Lui, Cristo morto e risorto, è in Lui, quel Cristo che noi abbiamo custodito nelle nostre chiese nel pane e nel vino. Allora io cristiano non ho la risposta, però posso segnalarti un luogo ai piedi del quale tu puoi ascoltare il silenzio e scrutare la vittoria della morte, l’ultimo orizzonte, l’ultima patria dove è custodito il senso, dove le onde del mare e del tempo non cadono nel nulla ma si riposano sulla spiaggia dell’eternità.
L’ultimo punto è la conclusione, Cristo al centro, per essere discepoli della verità e testimoni dell’amore. Io metto a confronto le due cose che ho cercato di dirvi: chi siamo, dove siamo, che sta succedendo intorno a noi, la verità e la maschera, chi è Gesù, Cristo, la verità che salva. Proviamo a mettere insieme questi due punti: ne escono tre combinazioni fondamentali.
Primo: vieni e seguimi; vivere la nostra vita come sequela di Gesù, non come seduzione dell’incanto, della maschera che ti vuol rassicurare bonariamente, non come adescare al sorriso ammaliante di chi ti vuol far credere che tutto si risolve facilmente, ma seguire Gesù sulla via esigente della sequela, del discepolato dell’amore, l’essere pronti a pagare il prezzo dell’amore più grande, sognare con Lui, ma essere pronti a pagare il prezzo perché il sogno prenda corpo nella vita dell’uomo, mettersi alla sequela di Lui, accettare che sia Lui il Signore della nostra vita, e andare non dove avremmo voluto, sognato, pensato, ma dove Lui vorrà per noi. Ecco quel secondo grado dell’umiltà, dell’indifferenza per ricchezza o povertà, per volere quello che Lui vuole, per resistere per Lui e per gli altri. Un grande testimone del nostro tempo, Dietrich Bonhoffer, il giorno in cui viene arrestato dalla Gestapo per andare in carcere da cui uscirà solo dopo essere fucilato nel campo di concentramento di Flossenburg, scrive queste parole: “esistere per gli altri”, “für die Anderen das sein”. Questo è il senso, quando tu ti metti a seguire Gesù tu ti perdi, e ti trovi soltanto in Lui, capisci che la tua vita ha un senso non se tu ti affermi, ma se tu ti doni, se tu ami, che la gioia della vera vita è, come diceva…, è la gioia della produzione.
Dunque primo punto: ciascuno di noi chiamato al discepolato dell’amore. Mi ami tu? Vieni e seguimi. Secondo: essere testimoni della verità che abbiamo incontrato per gli altri, cioè sentire che nel momento in cui tu hai conosciuto la verità, la verità ormai si produce dentro, e tu non puoi più tenertela chiusa nel cuore, con un possesso geloso; puoi cercare a volte di dimenticarla, di fuggire, ma essa si è attaccata alla tua anima più che la pelle al tuo corpo. Chi ha anche una sola volta nella vita conosciuto la misericordia di Dio, non potrà più fare il giudice degli altri, ma dovrà stare dalla parte dove Dio lo ha incontrato, degli uomini, dei poveri, dei peccatori, e lì cantare il canto della misericordia, essere il testimone della vita. Quando incontri Cristo Lui non ti lascia come ti ha trovato, da quel momento dentro di te si accende un fuoco, il bisogno di essere testimone della luce. Un cristiano che non vive la passione missionaria, il desiderio di annunciare Cristo, non conosce Cristo. Se hai incontrato Lui e ti sei messo alla sequela di Lui, tutta la tua vita diventa un desiderio ardente di contagiare gli altri di Lui, non puoi fare a meno di questo, di essere il testimone.
Questo vale per tutti, non soltanto per chi ha una speciale consacrazione alla missione, ma per tutti. Un cristiano che non è testimone irradiante è semplicemente uno che non conosce Cristo. “Chi vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Andate: in questo sarete miei testimoni”.
Terzo punto: tutto questo non nella solitudine del navigatore solitario, ma nella barca di Cristo. Se Cristo è al centro della tua vita, tu scopri che Lui ti unisce a tanti altri che come te hanno avuto il dono di essere raggiunti dal fuoco della verità, tu ti scopri Chiesa. La coscienza di comunione nasce dove c’è l’incontro col Cristo che ti ha cambiato la vita. La chiesa nasce quando Cristo è al centro del tuo cuore, e allora scopri che in Lui l’unità degli altri viene costruita. Quando tu conosci Gesù crocefisso abbandonato in te e negli altri, tu non puoi fare a meno di scoprire che sei parte di un popolo di poveri, di peccatori che ai piedi della stessa croce sono stati raggiunti e amati da Dio. Volerci chiesa, amare la chiesa, non è altro che amare Cristo. Don Lorenzo Milani, il profeta del nostro tempo, diceva: “io vorrò essere sempre obbediente alla chiesa, anche se essa dovesse calpestare il mio amore io amo la chiesa, perché la chiesa mi ha dato Lui, il Cristo, e io che almeno una volta alla settimana ho bisogno del perdono dei miei peccati, non saprei dove andarlo a cercare se non avessi la chiesa”.
La chiesa è la sposa di Cristo; con un’immagine molto bella la Chiesa è la luna, perché come la luna nella notte risplende della luce del sole, così la chiesa non ha una sua luce. Se ci guardiamo tutti a cominciare da me siamo dei poveri, dei peccatori, ma abbiamo un’altra luce che ci bacia e che risplende, Cristo. La chiesa è la luna che risplende nella notte del mondo del sole di Cristo. ecco la chiesa, e perciò noi amiamo la chiesa e ameremo la chiesa e vorremo edificare la chiesa, perché Lui ci ha raggiunto, ci ha amato, nella sua chiesa.
Chiudo con una preghiera a Cristo che ho scritto tanti anni fa e che ogni tanto riscopro e che adesso ho riscoperto perché mi ha scritto una badessa di un monastero di Bologna, dicendomi che una sua monaca, anziana, dopo una storia di fedeltà, di amore al Signore, negli ultimi mesi della sua vita non sapeva far altro che dire questa preghiera che aveva imparato a memoria, ed è così che è andata incontro al Signore nella serenità, nella luce. Ve la leggo:
“Cristo, immagine radiosa del Padre, principe della pace che riconcilii Dio con l’uomo e l’uomo con Dio, parola eterna divenuta carne, carne divinizzata, in te soltanto abbracceremo Dio.
Tu che ti sei fatto piccolo per lasciarti afferrare dalla sete della nostra conoscenza e del nostro amore, donaci il cercarti con desiderio di credere in te nell’oscurità della fede, di aspettarti ancora nell’ardente speranza di amarti nella libertà e nella gioia del cuore.
Fa’ che non ci lasciamo vincere dalla potenza delle tenebre, sedurre dallo scintillio di cose false. Donaci perciò il tuo spirito, che diventi egli stesso in noi desiderio e fede, speranza e umile amore.
Allora ti cercheremo, Signore, nella notte, decideremo per Te in ogni tempo, e i giorni della nostra vita mortale diventeranno come splendida aurora in cui tu verrai, stella chiara del mattino, per essere finalmente per noi il sole che non conosce tramonto”.
Amen, alleluia.