DA CAPPELLA A MEGAPARROCCHIA
(la nostra storia)
Non sono troppo remote le origini della Cappella della famiglia dei Cangiani che diede il nome alla zona che fu chiamata Cappella dei Cangiani.
Nel 1575 un certo Antonio Cangiano vi costruì una cappella, dedicandola a S.M. di Costantinopoli con la celebrazione di una messa festiva per sé e per i contadini dei dintorni, trattandosi di una zona prevalentemente rurale.
Morto il Cangiano, per disposizione testamentaria dello stesso, la chiesetta con le case adiacenti passarono al Seminario Napoletano, con l’onore della messa festiva. Poi una lapide (che era incastrata nell’uscio della chiesetta e che è venuta alla luce durante i lavori di rimozione delle macerie per trasformare quel rudere in sede di attività per i ragazzi prima e sede della Polisportiva Pro Cangiani dopo, lapide attualmente sistemata su una parete dei locali della Caritas parrocchiale) dichiara che con «instrumento per notar Pietro Capasso ed assenso apostolico del 4 ottobre 1676 ed atti fatti nella rev.ma Curia Arcivescovile di Napoli per lo scrivano Don Giacinto Pazzaneto, le case sopraddette in territorio adiacente ad uso della cappella detta di S. Maria di Costantinopoli, senza cura, furono concesse dal Seminario Napoletano in enfiteusi perpetua a Don Benedetto Cuomo, segretario della Gran Corte della Vicaria per sé, suoi figli legittimi e naturali maschi e femmine ed eredi successori con il peso di annui ducati sette a beneficio di detto reverendo seminario e di far celebrare a sue spese una messa in ogni giorno di festa e di precetto, e di mantenere gli utensili necessari, con l’obbligo di rinnovare l’investitura di detta concessione ogni ventinove anni, da registrare negli atti della Curia di Napoli».
Morto il Cuomo, poiché gli eredi di questi non curarono il rinnovo della concessione, i beni ritornarono al Seminario e dopo qualche tempo la Curia di Napoli, in libera collazione, nominava un sacerdote che abitava la casa soprastante e curava l’officiatura della cappella con la celebrazione delle messe quotidiane e festive.
Comunque, la soave immagine della Madonna di Costantinopoli è antecedente all’edificazione della cappella.
Notizie certe sulla cappella dei Cangiani intorno al ‘700 non ve ne sono. Il sito certo doveva essere tra i più ameni, come del resto tutta la zona, ma anche il meno popolato, se il Celano nel suo «Notizie sulla città di Napoli» dice: «Non ci resta che salire alla cima dei colli, traversando il piccolo casale dei Cangiani, nella cui chiesetta è da vedere una devota immagine di S. Maria di Costantinopoli». Anche D’Aloe nel suo «Catalogo di tutti gli edifizi sacri della città di Napoli 1863» dice: «La Cappella dei Cangiani si trova detta a volte all’Infrascata o ad Antignano».
Il Pellissario (di cui parleremo più avanti) morì nel romitorio di S.M. di Costantinopoli il 21/10/1786.
Chi era questo Pellissario? Lasciamo parlare Carlo Passerin D’entrèves, nel suo libro «Sette secoli di storia valdostana» a pag. 151: «Prima di concludere vorrei ancora intrattenervi su di un santo eremita valdostano che, anziché scegliersi come eremo un cocuzzolo di una delle nostre montagne, volle ritirarsi in cima alla collina del Vomero, il noto punto panoramico da cui si ammira il golfo di Napoli con il Vesuvio sullo sfondo».
Jean Antoine Pellissier nacque nel 1715 a St. Oyen, un villaggio della valle del Gran Paradiso. Dopo aver studiato, fa da precettore e viaggia. Ritornato in Val d’Aosta consegue il diploma di notaio. A questo punto lascia la valle perché sente una voce interna che lo chiama a Roma. Va in Toscana e dopo una breve tappa alla Verna, si incammina alla volta della capitale della cristianità.
Giunto a Roma a trentacinque anni di età, riesce finalmente a realizzare la sua vocazione facendosi eremita e vestendone l’abito. A testa rasa e a piedi nudi egli inizia la sua vita penitente, austera e appartata dal mondo, che condurrà per ben 36 anni cioè fino alla fine dei suoi giorni.
Da Roma ove vive per qualche tempo in una grotta nei dintorni della città, si trasferisce a Partenopoli, in provincia di Avellino, fissandosi in ultimo a Napoli ove va ad abitare in una cella sopra la chiesa solitaria di S. Maria di Costantinopoli sulla collina del Vomero allora completamente disabitata.
Solo alla fine del secolo scorso abbiamo poi notizie più attendibili sulla chiesa e sulla zona.
La II chiesa.
Morto nel 1871 il canonico D’Asta (del quale parleremo pure accennando alla cappella di Ponte S. Martino) fu nominato rettore della chiesetta il sac. Raffaele Amato e alla morte di costui, nel 1878, successe il canonico don Federico De Maio, appena trentenne che allora era tornato da Parigi ove venne ordinato sacerdote. Con lui effettivamente si ebbe una svolta decisiva per la crescita religiosa della zona.
Difatti don Federico spese tutta la sua vita per la piccola chiesa che trovò in pessime condizioni per la poca cura e la poca rendita; spese molto del suo per ricostruirla, abbellirla e decorarla; fece di marmo l’altare principale e costruì due piccoli altarini dedicandovi al Sacro Cuore uno di questi e facendovi in ogni ricorrenza feste religiose, molto più di quello che le sue forze gli avrebbero consentito. Lui che era entrato giovanissimo nella congregazione dei Signori della missione di S. Vincenzo dei Paoli, da cui poi dovette uscire per motivi di salute.
Aveva ereditato tanto zelo per la casa di Dio e la salute delle anime. Fu proprio per questo intenso zelo, oltre che per l’aumento della popolazione del villaggio, che Don Federico pensò di costruire nei pressi una chiesa più bella e più ampia della chiesetta del seicento. Perché, col succedersi degli anni, questa piccola chiesa non fu più sufficiente al numero dei fedeli; durante la messa festiva essa era così affollata che la gente stentava a trovarvi posto e molte persone erano costrette a fermarsi sull’uscio e anche fuori, oppure, entrando nel palazzo cui immetteva la sagrestia, per una stretta scaletta mobile di legno, si recavano sull’ammezzato ove era disposto l’organo; ed anche questo era così affollato che nelle festività più solenni, tutti temevano che da un momento all’altro la scala crollasse. Negli anno 50 c’era ancora qualche anziano che ricordava come in occasione di feste solenni venisse allestito un tendone che faceva da prolungamento della chiesa fino al piazzale antistante.
Si pensava quindi necessaria per il villaggio una chiesa più grande; ma mancavano i mezzi, né la carità pubblica rispose in modo adeguato alle esigenze.
Finalmente il canonico Di Maio acquistò dal marchese di Busceni, don Alfonso Tufarelli, con atto del 17 dicembre 1904, per notar Maddalena, un suolo di fianco alla vecchia chiesa che, sia detto a lode di Tufarelli, fu ceduto da questi di buon grado, in considerazione della pia causa. E con molti sacrifici personali di detto canonico e con poca carità pubblica, ma con grande fede e amore si iniziò la costruzione del nuovo tempio su disegno dell’ing. Alfredo Pastacalda.
E appartiene alla vecchia generazione il ricordo delle processioni guidate dai sacerdoti che si svolgevano per portare dalle cave di tufo della zona le pietre per la costruzione.
Il 1° ottobre 1914 la nuova chiesa venne aperta al culto.
Era composta di una sola navata con soffitto a volta illuminato da sei finestroni. L’altare maggiore, ancora oggi visibile dopo i lavori di ristrutturazione del 1984, è di bei marmi policromi, alcuni dei quali preziosi come quelli del ciborio. Ancora oggi, per vari nomi incisi sui marmi, si può ammirare la gara di generosità dei fedeli della zona. Di questa chiesa costruita ai primi del novecento, dopo i lavori di cui sopra, resta il pavimento di marmo, la cappella di S. Rita donata dalle sorelle Menna, la cappella dell’Immacolata costruita a devozione della famiglia Errico e la cappella di S. Antonio, dono della famiglia Paradiso con la statua di S. Antonio, sostituita da un quadro dello stesso santo, opera di un nostro filiano, pittore Carmine Meraviglia.
Il venerato quadro della Madonna di Costantinopoli, restaurato per opera del canonico Di Maio e che avrebbe attualmente bisogno di un ulteriore restauro, è dipinto su una tela raffigurante il divino Bambino che sorregge il simbolo della terra sormontata da una croce. La Vergine appare vestita di un manto verde con bordo dorato, che ricorda le immagini bizantine e che discende dal capo alle spalle. Nella parte sinistra del manto si osserva la stella caudata a cinque punte e pare gigliata nei quattro spazi.
Il volto dell’immagine e tutto l’insieme, per la purezza delle linee, attrae a prima vista ed ha la forza d’ispirare una profonda devozione, al contrario di tanti altri soggetti sacri che forse stupiscono per un superiore magistero di arte, ma mancano del principale requisito di un dipinto sacro, perché non riescono ad ispirare quella potente vibrazione dell’anima, quella segreta corrispondenza dell’uomo con Dio, che sorge dal raccoglimento e dalla fede.
Quanto all’epoca della sua fattura pare debba risalire molto prima della fine del secolo XIV, osservando che la raffigurazione del globo è divisa in tre parti e non in quattro: evidente allusione alla divisione della terra in tre, prima della scoperta dell’America.
Il 26 luglio 1917 la chiesa divenne coadiutoria e succursale delle limitrofe parrocchie di S. M. del Soccorso all’Arenella e di quelle di S. Croce ad Orsolone che fino allora avevano il loro confine a Piazza Cappella Cangiani. Ne fu Rettore curato Don Arturo Santelia, poco dotto, ma molto santo, che era succeduto al canonico Federico Di Maio che il 25 agosto 1917 aveva chiusa la sua laboriosa giornata terrena, dopo continuo apostolato svolto con zelo in questa zona.
Con la bolla cardinalizia del 29 marzo 1925 la chiesa venne eretta a parrocchia e la sera del 12 luglio 1925, con l’intervento del Cardinale Alessio Ascalesi, Arcivescovo di Napoli, la bolla di fondazione venne pronunziata e lo stesso venerato sac. Arturo SAntelia ammesso al canonico possesso della parrocchia.
Infine il 23 ottobre 1934 la chiesa venne solennemente consacrata dallo stesso Em.mo Arcivescovo.
La III chiesa.
E arriviamo all’ultimo capitolo di questa lunga storia.
Pur aumentando l’importanza della zona per la presenza dei grandi complessi ospedalieri (il «23 marzo» nel 1934, divenuto poi per le vicende del regime «Ospedale Cardarelli» nel 1947, l’istituto Pascale nel 1936, il Principe di Piemonte nel 1938, divenuto poi Monaldi, l’ospedale Cotugno per le malattie infettive e il policlinico nel 1972 con la II Facoltà di medicina) non si sentiva tanto l’esigenza di una chiesa più grande quanto di un servizio pastorale più adeguato.
Cominciò Don Francesco Cordella nel 1951 con la ristrutturazione della vecchia cappella per un lavoro più intenso con i ragazzi e i giovani. Continuò il parroco Tabasco succeduto a Don Cordella nel possesso canonico e anche nell’impegno di apostolato. E si cominciarono ad acquistare «fette» di terreno per il trattenimento dei ragazzi e si ampliarono i locali. Punto nero ma anche momento di rilancio fu il sacrilego furto del 28 maggio 1955 in cui di deplorò non tanto il furto in se stesso quanto la furia barbarica nella profanazione delle Sacre Specie.
L’espansione edilizia violenta e indiscriminata che ha portato intorno agli anni sessanta alla costruzione del Rione Alto e della zona di S. Giacomo dei Capri e di via Pietravalle rese drammaticamente insufficiente lo spazio della vecchia chiesa parrocchiale, pur costruita appena da mezzo secolo, ponendo l’esigenza della costruzione di una nuova chiesa. In una notte di maggio del 1966, dopo laboriose trattative, fu firmato il compromesso per l’acquisto del suolo e subito dopo iniziarono le pratiche burocratiche per i lavori.
La prima pietra del nuovo complesso parrocchiale, progettato dall’architetto Alberto Izzo, fu benedetta dal Card. Corrado Ursi il 2 giugno 1969. Sin dall’inizio dei lavori, tutti i filiani assistettero con soddisfazione al susseguirsi dei vari lavori: lo sbancamento e il getto delle opere di fondazione che già lasciavano trasparire l’imponenza del complesso che si sarebbe realizzato, la realizzazione dell strutture portanti in cemento armato sino al completamento del rustico e poi alle opere di tompagnatura e finiture.
Ricordiamo con commozione la prima funzione religiosa: la processione della domenica delle Palme 1970 al coperto, sotto il primo solaio appena costruito.
Dopo alcuni momenti difficili più per motivi burocratici che per adempimenti finanziari, il 1° gennaio 1974 iniziammo a celebrare tutti i giorni e poi l’8 giugno 1976, festa della titolare, l’Arcivescovo di Napoli, Card. Corrado Ursi, consacrava solennemente la nuova chiesa coronando le attese e i sacrifici di tutta la comunità parrocchiale e di chi decisamente la volle.
Guardiamo ora al progetto che fonde armonicamente l’ispirazione originale del suo architetto con la coscienza che il Concilio andava maturando di una chiesa popolo di Dio, edificio vivente che testimonia il Cristo condividendo le ansie e i dolori, le attese e gli interrogativi degli uomini, profondamente incarnata nella loro storia di ogni giorno: segno di questa comunità di salvezza è la chiesa-edificio che, ora nel nostro caso, è concepito come uno spazio vivo e aperto al quartiere.
La cortina alta degli edifici che fiancheggiano la chiesa lungo via Mariano Semmola, quasi a sommergerla, richiedeva una soluzione che mitigasse, in parte, la loro dirompente altezza; una struttura semplice e dinamica, scevra da ogni rigidezza compositiva, un involucro che si imponesse non tanto per la mole o la sua monumentalità, ma per il suo impianto attraverso particolari scorci prospettici capaci di riscattare l’intera zona. L’arch. Izzo vi è riuscito in pieno.
La concezione dell’edificio ha ubbidito a un’idea precisa. L’architetto ha voluto che l’interno della chiesa, cioè la sua parte idealmente e funzionalmente essenziale, fosse tale da consentire una particolare atmosfera di mistico raccoglimento nella navata e di mistica esaltazione nel presbiterio.
Il complesso si articola in due zone. Due aule assembleari sovrapposte: in basso una capace d’accogliere circa quattrocento persone; in alto l’aula dell’assemblea liturgica capace di accogliere circa ottocento persone, il battistero, la sacrestia e la zona della confessioni.
Il fronte della chiesa è preceduto dal piazzale del grande sagrato. Il passaggio città-chiesa è graduato dal sagrato e dalla leggera rampa d’ingresso. Sulla destra dello svettante campanile (con le campane sistemate altrove) composto da due sottili e slanciati pilastri a elle.
L’asse ingresso-altare-tabernacolo unisce idealmente il flusso pedonale della città con lo spazio della chiesa discendendo nell’aula secondo un percorso leggermente in pendenza.
In tal modo i centri liturgici diventano elementi essenziali dell’involucro interno.
Particolare cura è stata dedicata all’acustica della sala. La conformazione dell’apertura costituita da un’unica falda molto inclinata e degradante verso l’altare crea una condizione acustica ideale. L’illuminazione naturale della navata è realizzata attraverso la grande apertura triangolare della facciata principale con la stupenda vetrata, opera della ditta Giuliani di Roma su disegno del Prof. Pirozzi. L’illuminazione è completata dalle alte feritoie da un lato e da piccole finestre dall’altro lato.
Questa distribuzione di luce crea un ambiente raccolto e sereno. Un flusso di luce, naturale e artificiale, attraverso un elemento circolare dietro l’altare, sul tabernacolo, diventa il punto focale di tutta l’aula assembleare invitando al raccoglimento e alla preghiera. La vetrata principale, opera del Prof. Pirozzi, e le altre vetrate, ideate da suor Agar delle Pie Discepole, costituiscono un elemento di notevole interesse decorativo per l’interno della chiesa.
Pure di particolare interesse la sistemazione del presbiterio che si inserisce con naturalezza nell’organismo architettonico della chiesa, opera dell’architetto suor Timotea Tonello. Analizzando i singoli elementi, vediamo: l’ambone formato da due monoliti a forma di «C» sta a significare il confrontarsi cristiano con la parola di Dio; l’altare ha le due «C» rovesciate realizzando uno sforzo costante di comunione tra Dio e l’uomo; il tabernacolo, opera unica nel suo genere, formato da un cilindro contenitore e da un insieme di cilindri più piccoli, simboleggiano l’unione indissolubile di Cristo e della sua comunità che si crea soprattutto attraverso l’Eucaristia.
Rimane in ultimo il Crocifisso, opera di Michelangelo Naccherino (1550-1622) affidatoci dalla Curia Arcivescovile, essendo stato trasferito dalla Chiesa trecentesca dell’incoronata in via Medina. Lasciamo parlare per questo il prof. Raffaello Causa: «Le qualità formali, nel crocifisso, di commossa vibrante monumentalità, lo distinguono dalla restante produzione napoletana della seconda metà del secolo che, almeno per quello che sinora se ne conosce, sempre di più limitato respiro, è legata a un gusto che tende al descrittivo e alla cruda ostentazione sentimentale. Si renderebbe quindi probabile il riferimento alla controllata e possente plastica del Naccherino, quella delle sue pagine migliori, affiancandosi il crocifisso dell’Incoronata a quello di S. Carlo all’Arena e alla Pietà del frontone della Cappella del Monte di Pietà di Napoli».
Qui terminano le nostre descrizioni e le nostre reminiscenze storiche. Questo patrimonio di fede e di amore non è solo il segno di un passato semplice, ma pieno di contenuti. E’ anche la dimostrazione di un presente vissuto nella realtà del quartiere con la consapevolezza che la storia si costruisce giorno per giorno portando il mattone dell’impegno personale per il bene di tutti.
Saremmo grati al Signore, alla chiusura della nostra esistenza terrena, se riusciremo a trasfondere nel cuore degli altri una scintilla di quella fiamma che ha sempre alimentato la nostra esistenza.