È il messaggio che viene dal Conc. Vatic. II, ribadito con forza da Benedetto XVI. Non un laicato che «dia una mano» ai pastori e neppure che li «affianchi», in un ruolo marginale, ma protagonista, capace di portare i suoi doni alla vita della Chiesa, secondo i rispettivi carismi. A quasi cinquant’anni dalla fine del Vaticano II, non abbiamo ancora raggiunto questo obiettivo. Il clima di entusiasmo che le sue conclusioni avevano destato in tutti, laici e presbiteri, si è da tempo dissolto. Al suo posto, un senso di disincanto tra i laici più avvertiti, (molti sono più clericali dei preti!), e allarmanti sintomi di ritorno al passato da parte di un clero giovane, spesso, meno aperto ai laici di quello più anziano. Certo, non mancano sforzi per coinvolgere i laici nella vita interna delle comunità cristiane, anche per il rarefarsi delle vocazioni al sacerdozio ministeriale molti laici ormai hanno un ruolo importante all’interno delle parrocchie. Ma bisogna stare attenti al rischio che questa valorizzazione dei laici si svolga all’insegna di una loro «sacralizzazione». Il cristianesimo ha radicalmente superato, duemila anni fa, questa logica. Gesù, alla samaritana che vorrebbe discutere con lui se si debba adorare Dio sul monte Garizim o nel tempio di Gerusalemme, risponde che è venuto il tempo in cui Egli deve essere adorato «in Spirito e verità». Non in un luogo, non con certi riti o con altri, ma ovunque ci si trovi e in ciò che si sta vivendo. La nostra pastorale, invece, ha riprodotto il dualismo. I laici sono valorizzati dentro il tempio come lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione, catechisti, Vice-preti. ma la ricchezza delle loro esperienze, delle loro idee, delle loro competenze rimane sulla soglia, irrilevante.
Giovanni Paolo II, Christifideles laici n. 15)
La corresponsabilità, allora, assume una valenza unilaterale, puramente intra-ecclesiale e svuotata di riferimento alla vita reale, essa svanisce quando si torna a questa vita. Infatti, come, entrando nel tempio, si lascia dietro le spalle la propria identità «profana», così, quando se ne esce, si lascia alle spalle quella «sacra» e si torna ad essere vittima delle mode, dei luoghi comuni, degli stili di vita di una società consumistica, all’insegna del più totale individualismo. Per superare questa oscillazione tra una corresponsabilità clericale e un’irresponsabilità dei laici il cristiano può e deve far riferimento al suo battesimo, che lo ha reso partecipe della regalità, della profezia e del sacerdozio di Cristo. In forza della loro regalità i laici sono chiamati a costruire secondo il progetto di Dio sia le comunità ecclesiali di cui sono partecipi, sia le strutture sociali, politiche, economiche, i rapporti umani, le espressioni culturali del mondo in cui vivono. È questa regalità della verità l’unica che il
Signore ha rivendicato (Gv 18,37), e che esclude ogni sete di potere e di successo, sia dentro che fuori la Chiesa.
La profezia come corresponsabilità dei laici nell’approfondimento del patrimonio della fede è garantita dal Concilio quando parla del «sensus fidei» dei fedeli. Ma è forse il momento di pensare anche alla possibilità di una «opinione pubblica» dentro la Chiesa, che lasci emergere la voce dei laici in molte questioni riguardanti la vita «profana», in cui sono spesso più competenti dei loro pastori. Senza dimenticare, naturalmente, che, mentre in campo politico, dove l’autorità si fonda sul consenso, l’opinione pubblica è fondante, qui sarebbe solo una forma di partecipazione alla sinodalità del popolo di Dio. Il sacerdozio dei fedeli non è di serie B rispetto a quello dei presbiteri, perché è diverso per natura, non per grado (LG, n.10), e consiste nell’offerta della propria umanità. In forza di questo sacerdozio il laico e la laica non sono chiamati a svolgere solo funzioni ausiliarie (peraltro degnissime) dentro il tempio, ma a celebrare la loro liturgia per le strade del mondo, negli uffici, nelle scuole, nelle officine, in famiglia, nei luoghi dello svago, rendendosi così corresponsabili dell’offerta a Dio nell’universo e nella storia.
PARROCCHIA E FAMIGLIA insieme nella CORRESPONSABILITA’
Come far interagire i due soggetti, come porre in atto la sinergia che vede insieme la Pastorale familiare e quella parrocchiale. La pastorale parrocchiale ha una tradizione consolidata con la figura del presbitero al centro, la pastorale della famiglia ha fatto i suoi primi passi negli anni ’70. Prima di allora si dava per scontata la “tenuta” della famiglia, ed era collaudata una sua integrazione con l’organizzazione pastorale della parrocchia. Ora dopo questi 30 anni la pastorale familiare ha al suo attivo i “percorsi di preparazione al matrimonio” obbligatori e, dove si è riusciti, qualche iniziativa per le giovani coppie; l’istituzione di gruppi sposi, la festa della famiglia e la giornata per la vita. Per il resto una valanga straordinaria di indicazioni pastorali del magistero che non trovano attuazione nella vita ordinaria della parrocchia con una pastorale familiare che vede la famiglia come oggetto passivo che riceve servizi e non pensata come soggetto; con la motivazione che non è matura, non è preparata, che le coppie disponibili sono poche. Tale impostazione è comprensibile perché nella mentalità e nel vissuto ecclesiale, (e ancor più in quello sociale) la tipologia dei soggetti chiamati ad interagire si ferma a due: la singola persona e la comunità (parrocchia, società civile, aggregazione), con la conseguente impostazione pastorale che vede solo il rapporto tra parroco e fedeli, tra parroco e gruppi.
La famiglia é chiamata in causa o per le persone che la compongono, o perché parte di una comunità, ma non in virtù della sua identità. Ora, la famiglia, cioè la coppia sposata, comprensiva di figli desiderati e/o presenti, non è riconducibile al fatto di essere solamente una somma di due persone o più, né è identificabile con la comunità, ma ha una sua identità con connotazioni originali proprie:
– è soggetto unitario nel quale la reciprocità uomo-donna diventa “una carne”;
– è comunità intergenerazionale con relazioni di sangue, parentali, che si esprime in interdipendenza, trasversalità di valori, di esigenze, di funzioni e di ruoli;
– ha una sua continuità: la famiglia non è mai qualche cosa di isolato nel tempo;
– una realtà dinamica in continuo divenire dove avviene una continua integrazione tra passato presente e futuro;
– ha un suo codice di vita, quello dell’amore, che la qualifica in tutto il suo percorso, positivo e/o negativo;
– per noi cristiani c’è poi: “la dignità sacramentale del matrimonio”.
Lo stesso evolversi storico della famiglia in modalità diverse, accentuando l’uno o l’altro aspetto, non ne ha modificato la sostanza. È per questo motivo che la F C definisce la famiglia una “società che gode di un diritto proprio e primordiale”, e per tale motivo la società e lo stato sono “gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà”. Ma, attenzione, noi rischiamo di chiedere allo stato e alla società civile di riconoscere la soggettività della famiglia prima ancora di averla attuata noi nelle nostre parrocchie.
Che dire perciò del rapporto parrocchia-famiglia? Sappiamo storicamente che la famiglia era, nella società e nella Chiesa, una struttura molto forte, coesa e influente: un soggetto di azione sociale economico e religioso affermato. Lo stesso organizzarsi della pastorale nel tempo non poteva che dare per scontata questa soggettività forte ed offrire un servizio di sostegno, aiuto e integrazione al ruolo da essa svolto. L’articolarsi della pastorale per fasce di età (ad esempio inizialmente con il catechismo dei bambini e poi via via, negli anni, fino a quello degli adulti) era, nella maggior parte dei casi, un collocarsi accanto alla famiglia per contribuire a completare una formazione religiosa ma senza che cessasse il dialogo tra la comunità e la famiglia con il suo ruolo riconosciuto.
In questi ultimi decenni la situazione è radicalmente cambiata: la famiglia, nella maggior parte dei casi, non è più così. Eppure si continua a dare per scontata una certa forma dell’istituto familiare. Non sono mancati in questi anni tentativi di singole diocesi o
parrocchie che, per la creatività di parroci di buona volontà, hanno realizzato nuove forme di collaborazione, che vedono la famiglia maggiormente coinvolta nella parrocchia e parrocchie più attente alla famiglia. Ma queste innovazioni rischiano di essere più legate al carisma delle persone che alla prassi pastorale ordinaria. Credo che il confronto-incontro tra parrocchia e famiglia, non possa esprimersi solo nel promuovere qualche iniziativa in più “per” la famiglia, o nel partire dalla pastorale per famiglie cosiddette irregolari.
Mi sembra invece che la domanda più profonda sia: perché questa interazione delle due pastorali ? Quale l’obiettivo finale ? Chi sono i soggetti chiamati ad interagire e perché ? I due soggetti in questione sono i presbiteri e gli sposi. È vero che la pastorale parrocchiale non coincide con il suo parroco, ma è altrettanto vero che per il ruolo che gli è conferito per l’ordine sacro e per la collaudata esperienza in atto, chiedere il dialogo alla pastorale parrocchiale significa primariamente chiederlo al sacerdote. Attenzione, quì non ci chiediamo come costruire relazioni tra sacerdoti e sposati perché ci sono testimonianze di legami profondi tra essi:significative amicizie e di buone collaborazioni pastorali.
1. Ordine e matrimonio alla luce del Magistero
Innanzitutto va detto che ci troviamo in una situazione “sbilanciata”. Per motivi storici, culturali e sociali, ma anche ecclesiali, si è sviluppata una produzione teologica e pastorale abbondantissima e curata riguardo il ministero ordinato, rispetto ad una riflessione meno articolata sul matrimonio e sul ministero originale degli sposi proprio in forza del sacramento che hanno ricevuto, cioè in quanto coppia e famiglia.
Sono significativi alcuni testi magisteriali: “L’ordine e il matrimonio significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e fondamentale vocazione battesimale e hanno una diretta finalità di costruzione e di dilatazione del popolo di Dio. Proprio per questo vengono chiamati sacramenti sociali”(LG,1). “Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di Dio”.
Lo stesso Catechismo degli adulti: “Abbiamo imparato a dire «padre» non solo a chi ci ha generato, ma anche al sacerdote. Due paternità, una biologica e spirituale, l’altra solo spirituale. Due sacramenti, il matrimonio che consacra la coppia e fonda la famiglia, l’ordinazione che inserisce nell’ordine o collegio di pastori: l’uno e l’altro direttamente finalizzati a formare e dilatare il popolo di Dio, l’uno e l’altro segno dell’amore sponsale di Cristo per la Chiesa”.
Per evidenziare questi testi.
a) Ordine e matrimonio specificano la comune vocazione battesimale. Da questa dignità altissima che si condivide con tutto il popolo di Dio, “si scende” a servire, “a lavare i piedi”, per in un servizio che scaturisce dai due sacramenti.
b) Il sacramento dell’ordine è conferito ad una singola persona per il servizio; il sacramento del matrimonio per il servizio è dato ad una “unità di persone”: è la “relazione” che diventa sacramento.
c) Ambedue attualizzano in due modi essenzialmente diversi lo stesso realizzarsi della alleanza di Dio con l’umanità e di Cristo con la Chiesa. Sono “partecipazione e diversificazione” dell’unica sponsalità di Cristo con la Chiesa.
d) Ambedue sono chiamati con ministerialità diverse ad edificare, a costruire il popolo di Dio. Cristo ha voluto due sacramenti per “costruire” la Chiesa e nessuno dei due può pensare di costruire “Chiesa” da solo. Fermiamoci ora a contemplare i doni:
“I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, che proclamano autorevolmente la parola, che ripetono i gesti del perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col battesimo, la penitenza e l’eucaristia, che esercitano l’amorevole sollecitudine fino al dono totale di sé per il gregge che raccolgono nell’unità e conducono al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito”.
Gli sposi sono, in virtù del sacramento del matrimonio “segno e riproduzione di quel legame che unisce il Verbo di Dio alla carne umana e il Cristo capo della Chiesa suo corpo nella forza dello Spirito”. “Per i battezzati il patto coniugale è assunto nel disegno salvifico di Dio e diventa segno sacramentale dell’azione di Grazia di Gesù Cristo per l’edificazione della sua Chiesa”. “Nell’incontro sacramentale Gesù Cristo dona agli sposi un nuovo modo di essere per il quale sono come configurati a Lui Sposo della Chiesa e posti in un particolare stato di vita entro il popolo di Dio”.
Saper cogliere il dono straordinario, dato a chi è consacrato presbitero deve renderci capaci di cogliere il Mistero di Dio presente nel sacramento del matrimonio.
Le parole del Card. D. Tettamanzi: “Se questo è il profilo teologico, diverso è quello pastorale, perché il più delle volte la vita vissuta e la prassi pastorale non manifestano la «pari dignità» dei sacramenti. Per questo la relazione tra i due sacramenti – ordine e matrimonio – da dato oggettivo deve diventare soggettivo, deve entrare e stabilirsi nella coscienza, nella mentalità, nel costume, nell’agire”.
2. Ordine e matrimonio alla luce della prassi pastorale
a) La preparazione al Sacramento
Nella preparazione al sacerdozio c’è un obiettivo preciso: far crescere un adulto nella fede perché “rispondendo alla chiamata ad attualizzare Cristo Pastore, sia reso capace di esprimere questo dono a servizio della comunità. L’obiettivo è di formare un soggetto attivo nella vita della Chiesa per il mondo”. Nella preparazione al sacramento del matrimonio quale obiettivo si propongono i “corsi” ?. Guardando la prassi, gli obiettivi sono: dare un minimo di preparazione per garantirsi come Chiesa la coscienza che non abbiamo dato un sacramento della fede a degli adulti senza far loro sapere che cosa fanno; oppure non spegnere il “lucignolo fumigante” e tentare di recuperare qualche elemento essenziale della fede; proporre un cammino di riconciliazione e riavvicinamento alla Chiesa offrendo un cammino di fede; ricordare le norme morali che sono chiamati a vivere gli sposi nel matrimonio. Sono tutti obiettivi che stanno sotto la soglia della verità del matrimonio sacramento. Per esso infatti gli sposi sono chiamati a partecipare dell’amore sponsale che unisce Cristo alla Chiesa ed a testimoniarlo nella modalità laicale. Sono chiamati ad essere un “soggetto ecclesiale” che è memoria, attuazione e presenza di ciò che è accaduto sulla croce. Sono “trasportatori attivi” nelle strade del mondo, mediante la loro unione coniugale, del “mistero grande” (Ef 5,32): “soggetto sociale”.
La domanda da porsi davanti ad una coppia che chiede il matrimonio in Chiesa è: che cosa è chiamata a “diventare” con il sacramento del matrimonio ? La differenza con la preparazione al sacerdozio si manifesta lampante perché mentre i seminaristi rimangono in seminario con un obiettivo preciso verso cui tendere e tutto è finalizzato ad esso, chi va al corso per fidanzati quale finalità si trova proposta ? Il Direttorio di pastorale familiare, parlando della pastorale prematrimoniale, scrive che “essa si trova di fronte ad una svolta storica. Essa è chiamata ad un confronto chiaro e puntuale con la realtà e ad una scelta: o rinnovarsi o rendersi sempre più ininfluente e marginale”.
b) Formazione permanente
Bastano pochi cenni per capire la diversità di impostazione tra il sacramento del sacerdozio e quello del matrimonio. Nel primo caso non si risparmia tempo, energia per aiutare il presbitero a ricordare che pur nell’abitudine di ruoli e servizi è “segno visibile” di
un mistero d’amore, di una presenza viva di Cristo nella Chiesa. Per gli sposati nel Signore si perde di vista immediatamente la novità dell’essere stati costituiti sacramento. La dimensione sacramentale negli sposi proprio perché inerisce pienamente al dato umano ha bisogno ancora più di essere tenuta viva, fatta crescere, nutrita di Parola e di Pane eucaristico perché sono stati chiamati ad annunciare Cristo.
Ruolo dei due sacramenti nella prassi pastorale
Il ruolo del presbitero è ormai precisato e consolidato anche se non mancano fatiche nell’esercizio di ciò che è specifico del sacerdozio e di ciò che è gestione di una organizzazione necessaria. Per quanto riguarda il matrimonio, accanto ad enunciati non vi è l’approfondimento del ruolo che scaturisce dal sacramento e ancor meno la sua affermazione nella prassi. Oltre a ciò va fatta un’altra osservazione, la parola “Pastorale”, senza cattiva volontà di nessuno, è finita per essere intesa come “tutto ciò che si fa attorno alla parrocchia o al presbitero”. Per questo proporre a degli sposati di collaborare nella pastorale è immediatamente sinonimo dell’aver tempo (poco o tanto) da dare per l’attività che si fa in parrocchia. È certo che la parrocchia ha un suo posto importantissimo, ma se prendiamo tante affermazioni del Concilio riscopriamo che è tutta la comunità, in tutti i suoi membri, che sono soggetto pastorale là dove vivono e operano. “Pastorale” è il rendere presente Cristo Pastore risorto mediante il suo corpo (la Chiesa); in questo orizzonte c’è uno straordinario spazio “pastorale”, non solo in parrocchia, ma anche fuori per tutti gli sposi che nel loro vissuto normale possono essere “presenza di Cristo” che ama, costruttori di relazioni, costruttori della Chiesa che vive nel territorio.
c) Visione riassuntiva
Se vogliamo condensare questa diversità tra Ordine e Matrimonio nella prassi pastorale potremmo dire che i sacerdoti sono sempre pensati come “soggetto, risorsa per la vita della Chiesa”. Anche se talora mostrano nel vissuto difetti o contraddizioni rimangono a pieno titolo una “risorsa”. Dall’altra parte il sacramento del matrimonio è considerato come un “oggetto della pastorale”. La famiglia è convocata per circostanze (inizio della catechesi, prime comunioni, cresime, ecc.) ma non è considerata parte organica e strutturale alla vita della parrocchia, è più vista “problema” piuttosto che una risorsa pastorale. Molto spesso abbiamo progettazioni pastorali che non tengono in nessun conto la presenza e il ruolo sacramentale del matrimonio e la sua specificità. Alla luce della prassi si possono elencare iniziative, comportamenti, celebrazioni che dicono la fede della
comunità cristiana nel sacerdozio e non si intravedono, nell’insieme dei gesti della comunità, la fede nel sacramento del matrimonio e l’attenzione al mistero di Cristo che in esso si manifesta. Sembra che tutto sia solamente un dato umano che non ha bisogno di “fede” per essere compresa, valorizzata come “risorsa” per l’evangelizzazione e la pastorale.
3. Dal dialogo alla “Complementarietà” tra il Ministero ordinato ed il “servizio specifico” che scaturisce dal sacramento del Matrimonio
“Complementarietà” non significa che ciascuno dei due sacramenti è in sé incompleto o inefficace senza la presenza dell’altro, ma che ambedue sono complementari in ordine al fine che si propongono: tutti e due sono doni essenziali, costitutivi e permanenti per la costruzione del Regno. Mentre ciò viene immediatamente in evidenza per il sacerdozio, non sembra altrettanto per la dimensione sacramentale del matrimonio.
Così scrive il Card. D. Tettamanzi: “Il ministero della coppia cristiana nella Chiesa deve dirsi ordinario e permanente: ordinario non certo nel senso di secondario o marginale, ma nel senso di ministero connesso con la struttura stessa della Chiesa e quindi come elemento essenziale e costitutivo della Chiesa; e permanente, non solo e primariamente in rapporto alla singola coppia il cui ministero è permanente in quanto connesso con uno stato stabile di vita ma anche e soprattutto in rapporto alla Chiesa come tale nella quale il ministero coniugale è qualcosa di costitutivo e perciò stesso ineliminabile”.
L’altra precisazione che va fatta è attorno alla parola “ministero” usata per gli sposi: dal sacramento del matrimonio scaturisce una missione, un compito originale e specifico degli sposi nella Chiesa e nel mondo.
La deliberazione conclusiva dei Vescovi italiani del 1975 affermava “Insieme al sacramento dell’ordine, il matrimonio è costante punto di riferimento per l’edificazione e la vita della comunità cristiana”. A queste affermazioni fanno eco quelle del Convegno Ecclesiale di Palermo (1995) che così si esprime nella sintesi conclusiva: “Gli sposi, in quanto ministri del sacramento, sono portatori di una specifica ministerialità, che si manifesta nella vita della famiglia (nella fedeltà, fecondità, comunione, educazione) e che li rende vero soggetto protagonista della vita ecclesiale e sociale, in quanto dotati di un carisma particolare”.
Come si realizza questo “insieme” ? È solo un accostarsi rispettoso, un dialogo o c’è una organicità di relazione in ordine alla Chiesa e al suo essere nel mondo ? È per organizzarsi pastoralmente o c’è un dialogo tra le identità per poi armonizzarsi per la missione?
Per non formulare ipotesi pastorali fantasiose propongo una strada sicura sotto il profilo magisteriale. La Presbiterorum Ordinis descrive tutto il ministero specifico del presbitero secondo i “tria munera”. Il documento post-sinodale Familiaris Consortio esprime il fondamento della partecipazione delle famiglie cristiane alla missione ecclesiale nel triplice e unitario riferimento a Gesù Cristo Profeta, Sacerdote e Re, presentando la famiglia cristiana come: “comunità credente ed evangelizzante, come comunità in dialogo con Dio, comunità a servizio dell’uomo” .
Familiaris Consortio: “La famiglia cristiana” è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa, nel suo essere ed agire, in quanto intima comunità di vita e di amore. Famiglia e sacerdote possono far crescere l’autentica comunità cristiana che vive in un territorio.
– Dimensione profetica
Il sacerdote per il sacramento è costituito maestro autorevole nell’annuncio. Così si esprime il Concilio: “I presbiteri in quanto cooperatori dei Vescovi hanno come primo dovere quello di annunciare a tutti il Vangelo di Dio, cosicché, seguendo il mandato del Signore: ‘Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo a ogni creatura’ (Mc 16,15), possono costituire e incrementare il popolo di Dio”.
L’annuncio del Vangelo da parte del presbitero non può non intersecarsi con quello che è affidato alla famiglia cristiana, che così è descritto dalle parole di Paolo VI “La famiglia, come la Chiesa, deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia. Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo stesso Vangelo. profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita”.
Le modalità di annuncio sono straordinarie. La coppia è “immagine-parola” con la quale Dio ha scelto fin dall’inizio di autopresentarsi, di autocomunicarsi, di farsi conoscere. La coppia uomo-donna è la prima porta di ingresso alla conoscenza di Dio. “A immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gen 1,27).
“Perciò la famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione del patto d’amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore nel mondo e la genuina natura della Chiesa”.
Possiamo dire che i due sposi per il sacramento del matrimonio sono costituiti “parola-carne”, “parola-parlata” che testimonia, “racconta” il mistero che unisce Cristo alla sua Chiesa. S. Giovanni Paolo II arriva a dire nella Lettera alle famiglie: “Non si può, pertanto, comprendere la Chiesa come Corpo mistico di Cristo, come segno dell’Alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al “grande mistero”, congiunto alla creazione dell’uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all’amore coniugale, alla paternità e alla maternità. Non esiste il “grande mistero”, che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il “grande mistero” espresso nell’essere “una sola carne” (cfr Gen 2,24; Ef 5,31-32), cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia.
La famiglia stessa è il grande mistero di Dio. Come “chiesa domestica”, essa è la sposa di Cristo. La Chiesa universale, e in essa ogni Chiesa particolare, si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella “chiesa domestica” e nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni. È un evangelizzare a livello di “essere” prima ancora che dell’”operare”. “La vita cristiana degli sposi deve perciò essere un’evangelizzazione credibile ed efficace”.
Quale formazione e quale identità-ruolo sono chiamati ad assumere nelle varie situazioni della vita pastorale?
Come sono chiamati ad essere “parola-parlante” mediante il loro essere nella comunità civile, dal condominio alle istituzioni culturali ?
Forse prima di tutte queste domande dobbiamo porne una decisiva: quanto e come le nostre coppie e famiglie cristiane sanno di essere “Parola-carne” manifestativa e comunicativa del mistero di Dio in modo efficace ?
I nostri sposi conoscono la “specificità” di grazia del sacramento del matrimonio per il quale sono resi idonei a testimoniare il Vangelo mediante la vita di coppia e di famiglia, “conduttori in carne ed ossa” della parola di Dio-Amore ?
Possiamo così comprendere quanto e come gli sposi e le nostre famiglie “nutrite dalla parola” annunciata dal sacerdote ne sono la prima attualizzazione.
– Dimensione sacerdotale
“I presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito. Essi infatti, con il battesimo, introducono gli uomini nel popolo di Dio; con il sacramento della penitenza, riconciliano i peccatori con Dio e con la Chiesa; con l’olio degli infermi sollevano gli ammalati; e soprattutto con la celebrazione della messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo”.
In Familiaris Consortio, 55 leggiamo: “Anche la famiglia cristiana è inserita nella chiesa, popolo sacerdotale: mediante il sacramento del matrimonio, nel quale è radicata e da cui trae alimento, essa viene continuamente vivificata dal Signore Gesù, e da lui chiamata e impegnata al dialogo con Dio mediante la vita sacramentale, l’offerta della propria esistenza e la preghiera. È questo il compito sacerdotale che la famiglia cristiana può e deve esercitare in intima comunione con tutta la Chiesa, attraverso le realtà quotidiane della vita coniugale e familiare: in tal modo la famiglia cristiana è chiamata a santificarsi ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo”.
Quale dialogo si può stabilire tra queste due identità sacramentali ? La strada più semplice è passare in rassegna i singoli sacramenti.
Battesimo: Cristo unisce a sé come suo corpo i figli dell’uomo per renderli partecipi della sua pienezza di vita. Gli sposi genitori sono coinvolti in modo straordinario per due motivi principali: sono attualizzazione di questa unione sponsale che unisce Cristo al suo Corpo e avranno l’impegno di farla crescere non solo fisicamente, ma in quella stessa vita nuova della quale loro sono memoriale vivo e profezia.
È su questa risorsa di sposi e genitori che si può ravvivare un dialogo tra parroci e famiglia per una rinnovata attenzione e servizio ad ogni vita.
Cresima: è il dono dello Spirito perché il figlio viva la sua responsabilità e testimonianza cristiana nella sua vocazione. È lo stesso Spirito Santo che, donato agli sposi nel sacramento del matrimonio e operante in essi in modo permanente, li accompagna non solo nel donarsi la vita reciprocamente ma anche perché nel generare, conformino la loro vita di padri e madri attualizzando per i figli la “presenza” del Padre che è nei Cieli per educarli alla pienezza della maturità in Cristo. Chi ha generato la vita e la riconosce animata dallo Spirito sa che essa è chiamata a diventare un dono per gli altri; sa che c’è la “chiamata”, la vocazione ad “occupare un posto” non da spettatore, ma da protagonista nella Chiesa e nella società per costruire il Regno di Dio.
Da qui scaturisce la responsabilità diretta e successivamente la corresponsabilità dei genitori che sono invitati a collaborare nella formazione cristiana dei figli perché arrivino a capire e vivere la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo.
La stessa pastorale vocazionale talora è intesa da qualcuno solo legata al sacerdozio e alla vita consacrata, facendo più leva sulla disponibilità dei genitori a donare i loro figli per la consacrazione religiosa, che intrecciare il percorso dei genitori con quello del divenire dei figli per renderli capaci di amare e servire, aprendosi alla molteplicità della vocazione. “La famiglia deve formare i figli alla vita in modo che ciascuno adempia in pienezza il suo compito secondo la vocazione ricevuta da Dio”.
Eucaristia: “Nella cena eucaristica ‘prende carne’, si realizza il simbolo delle Nozze tra Dio e l’umanità, tra Cristo e la sua sposa: i due saranno una carne sola”. Il “mistero d’amore” e di alleanza che Cristo ci offre con il suo corpo per unirci a sé, è attualizzato e reso presente in modo efficace anche “mediante” la coniugalità degli sposi.
Infatti con la loro relazione d’amore rendono presente sacramentalmente lo stesso mistero d’amore che si cela nell’eucaristia. Non attualizzano solamente l’essere “corpo donato per amore” l’uno per l’altro, ma con la loro unità sono “nutrimento” d’amore per le relazioni ecclesiali e sociali, sono “esportatori di alleanza divina”. La coppia è chiamata con e come l’eucaristia ad essere “pane spezzato” per la Chiesa e la società, perché Cristo le compenetri totalmente. Alla luce di queste semplici riflessioni si può immaginare cosa
significhi preparare e accompagnare un figlio alla prima comunione ed ancor più, cosa significhi la partecipazione della coppia e della famiglia alla messa domenicale. Vanno all’eucaristia per rinnovarsi, rimodellarsi dall’intimo del cuore fino all’espressione più esterna per poter essere loro stessi, singolarmente e come coppia, “corpo donato per amore”.
Riconciliazione: Per questo sacramento, mentre vi è un rapporto unico e singolare con il sacerdote perché in lui si attualizza il mandato di Gesù a riconciliare i peccatori, per il matrimonio i coniugi sono chiamati a vivere la riconciliazione come dono dello Spirito alla loro vita di coppia. Il primo “agente” di riconciliazione nella coppia è il coniuge, non solo per un perdono ma anche per il dono di un maggiore amore nei confronti dell’altro. Egli è chiamato ad una accoglienza spirituale, si assiste alla trasformazione spirituale del coniuge che perdona.
Tale dimensione di riconciliazione, che ha modalità e tempi diversi dalla riconciliazione sacramentale, ma che è pervasa dalla stessa natura dell’amore purificatore, trova nella famiglia il luogo non solo di riconciliazione “tra” membri della famiglia, ma anche con i vicini, con ogni persona (si pensi ad esempio a rancori tra parenti, conoscenti, alle faide familiari, e alla portata sociale di gesti di perdono dei familiari delle vittime della violenza e della mafia).
La relazione, deve passare inevitabilmente dalla riconciliazione. Se questa è la struttura di vita della coppia, la comunità parrocchiale sarà permeata, mediante le coppie e le famiglie, da un evidente stile di riconciliazione, accoglienza, perdono reciproco a tutti i livelli a tal punto da far riscoprire e vivere in pienezza il sacramento della penitenza come luogo celebrativo di una riconciliazione che viene da Dio ma che si è potuta respirare nella comunità parrocchiale riconciliante con tutti.
Unzione dei malati: è Cristo che si fa presente là dove c’è una vita che soffre e mediante il ministero del sacerdote porte il suo conforto. Anche in questo caso il dialogo tra presbiteri e coppia/genitori si fa collaborazione e condivisione di missione. Chi ha generato la vita è chiamato ad esprimere il suo amore e la sua attenzione alla vita soprattutto quando essa incontra la sofferenza, della malattia.
– Dimensione regale
La descrizione di questo compito per i sacerdoti viene così espressa dal Concilio: “Esercitando l’ufficio di Cristo Capo e Pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità, e per mezzo di Cristo la conducono al Padre nello Spirito”. Per questo mandato egli svolge il suo servizio con l’attenzione di non limitarsi alla cura dei singoli ma di impegnarsi nella formazione di una autentica comunità cristiana.
Questa dimensione di servizio è segnata per il sacramento del matrimonio da una modalità e da un contenuto specifico nel loro essere dono per la Chiesa e la società: “La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire in quanto intima comunità di vita e di amore. Se la famiglia cristiana è comunità, la sua partecipazione alla missione della Chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria: insieme, dunque, i coniugi in quanto coppia, i genitori e i figli in quanto famiglia, devono vivere il loro servizio alla Chiesa e al mondo”.
“In questa prospettiva è facile comprendere quanto sia necessario promuovere la comunione tra le famiglie cristiane nella parrocchia, chiamata quest’ultima a divenire veramente ‘famiglia di famiglie”. Una parrocchia è fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che rivelano la dimensione familiare della Chiesa, la sua “maternità”, il suo esser “famiglia di Dio”.
Le componenti essenziali del vivere della famiglia, complementarietà, corresponsabilità, compresenza, compartecipazione, possono diventare apporto essenziale nel costruire la famiglia dei figli di Dio fino ad essere la famiglia stessa “a dare forma” alla comunità ecclesiale e civile. La famiglia, fonte e luogo di comunione, è chiamata a svolgere il suo compito simultaneamente nella comunità ecclesiale e civile esprimendo così la coincidenza perfetta tra identità (cristiana, ecclesiale) e la missione (l’essere nel mondo, nel territorio).
Tali contenuti vengono ben esplicitati nel Direttorio di Pastorale Familiare, nel capitolo sulla missione della famiglia nella Chiesa e nella società: “Per la famiglia cristiana, inoltre, la partecipazione alla vita della società affonda le sue radici nella stessa grazia del sacramento del matrimonio, il quale, assumendo pienamente la realtà umana dell’amore
coniugale, abilita e impegna i coniugi e i genitori cristiani a vivere la loro vocazione di laici, e pertanto a cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Di conseguenza il compito sociale e politico della famiglia cristiana rientra in quella missione regale o di servizio, alla quale gli sposi cristiani partecipano in forza del sacramento del matrimonio, ricevendo a un tempo un comandamento ai quali non possono sottrarsi ed una grazia che li sostiene e li stimola”.
Se queste sono le verità conosciute, si può progettare la pastorale o parlare di costruzione della comunità ecclesiale o civile prescindendo dalla famiglia o parlando solo genericamente di laici ? Mi permetto di concludere questo aspetto della regalità richiamando un particolare che può costituire non solo luogo di incontro e complementarietà tra preti e sposi, tra parrocchia e famiglia, ma può diventare strumento di pastorale: la casa. Le case delle famiglie cristiane dei primi secoli erano il luogo dell’incontro, della costruzione di relazioni cristiane, di conversione di parenti e amici, fino alle celebrazioni dell’eucaristia.
Oggi le case rischiano di essere supercurate per se stesse e non per la preziosità del sacramento che vi “abita”. Vengono benedette, sono talora incontro per gruppi familiari ma raramente sono il luogo della “buona notizia”, della comunicazione e testimonianza di fede, della dimostrazione di fraternità e amicizia. La casa, pur piccola, va riportata nel vissuto della famiglia cristiana e della comunità parrocchiale ad essere “strumento pastorale”, mezzo per l’edificazione del Regno di Dio.
4. Quale percorso pastorale per una corresponsabilità tra parrocchia e famiglia e oprattutto per una pastorale “con” la famiglia
Preliminari
– La pastorale sopra descritta passa dalla conversione. Si tratta di ravvivare la nostra coscienza nel significato e ruolo sacramentale non solo del sacerdozio ma anche del matrimonio. Si tratta di riesprimere la fede in Cristo che agisce “nel e col” sacramento del matrimonio, non meno di quanto agisce, sia pur in modo diverso, nel sacerdozio.
– In questo contesto di recupero va ripensata la relazione tra verginità e matrimonio per riscoprire che in ciascuna delle due forme di vita si compie il disegno di Dio “La
rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza all’amore: il matrimonio e la verginità. Sia l’uno che l’altra nella forma loro propria sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo essere a immagine di Dio”.
– Nello stesso tempo va promosso un approfondimento teologico della relazione tra i due sacramenti dell’ordine e del matrimonio in vista della missione. Questo consentirà innanzitutto di avere più possibilità di affrontare alla radice la motivazione sottesa alla “corresponsabilità” dei due sacramenti per il Regno.
– Un ultimo elemento che dovrebbe precedere e accompagnare la pastorale con la famiglia è la promozione di una dimensione sponsale della spiritualità del presbitero. L’immagine della Chiesa Sposa e di Cristo Sposo – di origine biblica, realizzata già nella creazione, cara ai Padri – che sta a fondamento della verità stessa del matrimonio cristiano (cfr Ef 5, 31-32) può divenire feconda in ordine alla interiorizzazione del ministero ordinato. Ed inoltre essa diviene feconda in ordine alla reciproca comprensione dei due misteri: il sacerdote che si pensi Sposo della Chiesa guarderà al sacramento del matrimonio come alla forma personale dell’amore nuziale di Cristo e della Chiesa e le implicanze pastorali di questo, che riconducono all’unico mistero eucaristico, sono facilmente intuibili. In questa luce sarà più facile per il presbitero vedere nel sacramento del matrimonio e nelle sue varie dimensioni una forma elettiva del mistero nuziale che eucaristicamente celebra e guardare al concreto della coppia/famiglia come al paradigma di una ecclesialità relazionale e viva. La percezione della famiglia come “modello” relazionale dell’essere Chiesa opera una significativa trasformazione dell’approccio pastorale del sacerdote nei confronti della famiglia, un approccio che ne valorizza ad un tempo l’ecclesialità e la soggettività e la cui fecondità pastorale. Il presbitero “è chiamato”, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo Sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita deve essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di gelosia divina (cf. 2 Cor. 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli (cf. Gal. 4,19).
Proposte
– Non si può ipotizzare di promuovere la soggettività del sacramento del matrimonio se non vi è la formazione adeguata.
– In questa pastorale va ripensato il fidanzamento come tempo di vera e propria iniziazione formativa per preparare ad una “missione specifica”. È la proposta di superare, almeno per alcuni, i percorsi di preparazione al matrimonio e far coincidere la crescita umano-affettiva dei fidanzati con la crescita spirituale-pastorale mettendo in atto la dinamica vocazionale.
– Iniziare con alcune coppie/famiglie a progettare insieme la pastorale o nel suo insieme, o in parte. Ad esempio prendere un aspetto della pastorale come un camposcuola o una festa o un percorso catechistico e progettarlo insieme con qualche famiglia. Naturalmente in questa progettazione va tenuto in conto lo specifico che è chiamato a dare il presbitero ma anche quello che può dare la coppia di sposi o la famiglia. Individuare, approfondire insieme, sacerdoti e laici sposati, ciò che di specifico sposi e figli possono apportare di “dono-risorsa” nel loro essere nel territorio in tutte le sue espressioni di vita sociale.
– Mentre si inizia a valorizzare e specificare il dono sacramentale che è il matrimonio e la famiglia va data attenzione alle situazioni matrimoniali difficili e irregolari.
– Va anche promossa la formazione di “operatori di pastorale familiare” da distinguere in modo netto da una “operatività” che è chiamata ad avere ogni famiglia. Anzi si può meglio dire che, l’obiettivo di ogni operatore di pastorale familiare è quello di promuovere la soggettività di ogni famiglia che è chiamata ad essere “soggetto” anche senza far nulla di specifico in parrocchia o dintorni. La finalità di questi operatori è di collaborare in modo più stretto con i sacerdoti e la parrocchia particolarmente per quegli aspetti che riguardano la famiglia stessa: formazione dei fidanzati, accompagnamento delle famiglie, accostamento delle famiglie in difficoltà, pastorale generale, pastorale familiare, catechesi con la famiglia, pastorale dei malati.
5. Questo contesto culturale “invoca” il matrimonio e la famiglia vissuto e testimoniato come Dio lo ha definito: “Cosa molto buona” (Gen 1,31)
“Uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo è la trasformazione della famiglia. Un tempo vi era un unico modello di nucleo familiare, quello formato da padre, madre, figli. Ora le famiglie sono molte: oltre a quelle tradizionali, vi sono famiglie formate da un solo genitore, separate, risposate, adottive, affidatarie. I genitori possono essere sposati,
conviventi oppure vivere ciascuno per conto proprio. Il panorama è vario e in evoluzione, tanto più che gli immigrati portano in Italia costumi e tradizioni molto lontani dai nostri. I bambini, che sono i primi a cogliere i mutamenti, l’hanno ormai capito: non vi è una regola che valga per tutti e il matrimonio o la convivenza dei loro genitori non sono necessariamente eterni. Può sempre accadere che papà e mamma che oggi si vogliono bene, domani si separino…”
Credo inutile ogni commento al testo ma si evidenzia ancor più che il matrimonio e la famiglia cristiana è in questo momento storico un “buon annuncio” che viene offerto per “salvare” l’uomo e la donna nella loro identità e nella loro relazione. Infatti prima ancora del matrimonio è messo oggi in questione il “genere” (maschile-femminile), il fatto di sposarsi, con chi sposarsi, quando sposarsi, per quanto tempo, fino al “se vale la pena sposarsi”.
Si vanno allungando le fila di coloro che temono il matrimonio, più che vederlo come un ideale di vita, il luogo del realizzarsi del maschile e del femminile, le statistiche indicano un calo di “nuzialità” che si avvia verso il 30% della popolazione. Oggi le famiglie cristiane sono chiamate a salvare la “natura” e diffondere la bellezza della coniugalità.
Per questo Giovanni Paolo II sollecitatava: “Occorre incrementare la pastorale della famiglia, non limitandola al periodo della preparazione al matrimonio o alla cura di qualche gruppo. È indispensabile che le famiglie diventino maggiormente protagoniste nell’evangelizzazione e nella vita sociale…”. Per i sacerdoti interagire con la famiglia significa aver capito che il futuro dell’evangelizzazione dipende in gran parte dalla famiglia.
R. P.
- on Ottobre 28, 2018
CLERO E LAICI: DALLA COLLABORAZIONE ALLA CORRESPONSABILITÀ.
- categories: Scritti Mons. Ponte
- 1643 Views