25 Marzo 1995
Convegno Parrocchiale sul tema:
“Quale Parrocchia?. Il presente tra memoria e attesa”
Interventi del gionalista Massimo Milone, dell’avv. Raffaele Cananzi e di Mons. Luigi Pignatiello
Intervento del giornalista Massimo Milone
Sono contento di stare qui, stasera, per due motivi essenzialmente. Il primo è che in una sala come questa, in un sabato pomeriggio, pieno di sole, con voi, e con da sfondo una società sempre più difficile, oserei dire proprio per il lavoro che faccio, cinica, per me significa una boccata d’ossigeno, un motivo di speranza in più per andare avanti. Il secondo motivo è che sono un ex parrocchiano di questa stupenda, antica chiesa. Abitavo qui quando mi sono sposato, è nato qui mio figlio ed è stato battezzato qui, quindi, c’è un legame forte con questo territorio.
Il motivo di speranza è dato dal lavoro che fate, che fa la parrocchia sul territorio e, da anni, con grande incisività.
Motivi di speranza: mi è stato assegnato un tema difficile, io sono un “operatore di strada”, queste strade difficili della nostra città, del nostro territorio, del nostro paese.
La parrocchia, il servizio (ce lo spiegheranno Raffaele Cananzi e Monsignor Pignatiello): io vorrei soltanto delineare, con qualche flash, quello che sento, quello che registro da operatore di strada rispetto a quello che, secondo me, è il fulcro principale della chiesa, la comunità parrocchiale, dove si costruisce, giorno dopo giorno, con le difficoltà del territorio (perché poi la parrocchia che cosa è se non il territorio che la esprime, il territorio sociale, umano, oserei dire quasi affettivo) con tutte le difficoltà del nostro territorio napoletano. Si costruisce qui la società del domani.
Il tema che con grande amabilità mi ha assegnato il nostro amico comune Aldo Rossi (conoscevo già l’operosità del parroco Mango) è un tema preciso.
Il terzo motivo di gioia è proprio l’amicizia che mi lega ad Aldo Rossi.
Mi atterrò, quindi, a questo tema: l’aspetto sociale della parrocchia nel quartiere, il rapporto con le istituzioni, visto da un cronista che, con molte difficoltà, giorno dopo giorno, tenta di essere un cronista cristiano.
E’ fondamentale, per parlare oggi di parrocchia, il documento del magistero. Ma, principalmente, lo vediamo tutti dai segni dei tempi, dalle esigenze della chiesa di oggi, si evince chiaramente (e ce lo diranno poi dopo sia Cananzi che Monsignor Pignatiello) che una delle strade più efficaci per una proficua pastorale organica e unitaria, si palesa proprio nella presenza attiva di noi, dei laici, ed è bene, secondo me, è bene dirlo ad alta voce: non ci potrà essere oggi nuova evangelizzazione, quella nuova evangelizzazione chiesta sulle strade del mondo da Giovanni Paolo II, quella proposta da tanti eroici parroci nelle chiese locali e dai vescovi ovviamente, senza l’impegno nuovo, visibile, coraggioso e oserei dire, proprio, eroico di questi tempi, ma anche preparato e corresponsabile, dei laici. In altri tempi, ovviamente, l’evangelizzazione è avvenuta attraverso il clero. Oggi sarebbe irrealizzabile non solo per la mancanza di vocazioni (i dati statistici li leggiamo, li conosciamo tutti) ma credo che sia soprattutto per la nuova coscienza ecclesiologica, promossa e avviata dal Concilio Vaticano II. Tutti siamo chiamati ad essere sacerdoti, servitori e profeti, ci ricorda il Concilio, (e ce lo dirà ovviamente con la sua autorevolezza Monsignor Pignatiello). I laici non sono da definirsi, come in passato, i non-chierici, ossia, in negativo, la Chiesa del Concilio è un’unica famiglia in cui i figli sono tutti uguali per dignità e tutti diversi, ma per funzione.
So che, oggi, emerge nel modo di essere parrocchia il concetto di partecipazione; per primo forse, con grande forza, lo sottolineò Paolo VI; ma, oggi, proprio per l’evoluzione della società in cui viviamo c’è un altro concetto che, credo, vada sottolineato con forza: corresponsabilità.
Anche nella gestione della pastorale comunitaria (vedi per esempio gli organismi parrocchiali ed entriamo subito nell’argomento) non è più lecito, non è possibile, credo, portare avanti una pastorale organica ed unitaria senza la presenza attiva e corresponsabile del laicato.
Leggevo tempo fa, lo diceva mi pare Pio XII: “Senza laicato non c’è chiesa”, senza l’opera pastorale, missionaria, pensiamo alle nostre città così difficili, pensiamo a Napoli, non potrà esserci nuova evangelizzazione. Ma il laico serve non solo a fare colore, ma anche a dare giusta consistenza ecclesiale alla comunità cristiana. Una parrocchia che vuole essere missionaria, prendiamo nella realtà del nostro Mezzogiorno, del suo territorio, non può non coinvolgere i laici.
Dunque, è soggetto dell’evangelizzazione il laicato e dovrà essere il laicato, credo, ad evangelizzare il laicato, penso ad animare, per esempio, la catechesi di bambini, di adulti, i gruppi di servizio che crescono anche nella nostra città, formare e rendere efficienti, per esempio, gli organismi di partecipazione che, in molte parrocchie (non qui certo perché questa è una parrocchia che vive) ma che in tante parrocchie giacciono in letargo o sono strutture soltanto nella carta. Penso a quello strumento che sono, oggi, le scuole di formazione sociale, di impegno pre-politico che devono crescere anche all’ombra delle parrocchie.
E c’è fuori il territorio: è la pista necessaria, urgente per una pastorale organica, unitaria degna della Chiesa voluta appunto dal Concilio. Queste sono le strade della nuova evangelizzazione, ma intese non solo come luogo geografico, ma luogo, oserei dire, antropologico e, quindi, luogo teologico. E qui mi fermo. Ce lo spiegherà bene Monsignor Pignatiello, ecco, quindi, come Cristo che scese per strada, in mezzo alla gente, credo che, oggi più che mai, la Chiesa deve scommettere la concretizzazione della sua missione proprio per strada: incarnare il Vangelo nella cultura, nei bisogni, nel linguaggio delle masse popolari, laddove la gente lavora, soffre, gioisce, vive, sopravvive a Napoli. Una comunità cristiana chiusa a garanzia di sé stessa, lasciatemelo dire, corre il rischio di essere una pseudochiesa; quando un gruppo, un movimento, un’associazione vive per sé stessa, si ghettizza e quando un gruppo si ghettizza non è più chiesa. La Chiesa non sta né al di sopra, né al di fuori, neanche accanto al mondo, ma “dentro” il mondo, come essenziale comunione e necessario servizio. E’ un passaggio fondamentale, coraggioso in molte parrocchie, in molte realtà anche della nostra chiesa, diocesi che ha vissuto la stagione del Sinodo, piena di fermento, piena di intuito, piena di semi gettati, e che, oggi, vive la stagione del post-Sinodo, anche con la visita pastorale dell’Arcivescovo. Questo passaggio è una strada obbligata, è un passaggio che non si può eludere. E sono però convinto e mi riallaccio subito poi al tema, i laici, l’impegno sociale e politico, la cultura e la comunicazione sociale, credo che, in questo passaggio, un indirizzo parrocchiale e poi diocesano, desunto dalla dottrina sociale della Chiesa e in particolare nelle nostre regioni del Mezzogiorno, qui a Napoli in particolare, possa giovare non poco alla crescita della pastorale complessiva, organica, delle nostre comunità locali. Troppo forte fuori è la voce della società napoletana, della società meridionale. Molte risposte possono venire proprio dall’approfondimento della dottrina sociale della Chiesa, che forse è anche quella più evidente, l’amo quasi, direi, al quale far abboccare i giovani alle prese con problemi che chiedono mille risposte. E’ tutto credo da riscoprire, o quasi, nelle nostre chiese, il ruolo per esempio della dottrina sociale in ordine appunto alla pastorale e alla evangelizzazione del mondo d’oggi. Mi piace citare qui un passo del documento della congregazione per l’educazione cattolica, in quanto parte integrante della concezione cristiana della vita. Dice: “la dottrina sociale della Chiesa riveste un carattere eminentemente teologico, tra il Vangelo e la vita reale infatti si ha un’interpellanza reciproca, che sul piano pratico della evangelizzazione, della promozione umana, si concretizza in forti vincoli di ordine antropologico, teologico, spirituale cosicché la carità, la giustizia, la pace sono inseparabili nella promozione cristiana della persona umana”.
Credo che, oggi, la modernità di far parrocchia significhi anche questo. Non solo questo ma anche questo, specialmente nel nostro lacerato territorio sociale. E in questo contesto, mi si chiede, il ruolo dei cattolici, il loro ruolo sociale e politico. E poi la stampa, che cosa può fare ?. Solo qualche riflessione dettata dall’esperienza quotidiana: l’impegno sociale, civile dei cattolici. Sono giornate amare queste (non entro nel merito di una lacerazione e di una grande sofferenza che viviamo come cattolici in queste giornate). E’ sotto gli occhi di tutti però il passaggio epocale, difficilissimo, che viviamo. E allora come cattolici, mi chiedo come è possibile che nelle parrocchie, nelle nostre assemblee come è possibile non parlare di una società che ha misconosciuto il senso del dovere, cancellato i valori unificanti, innanzitutto il senso della solidarietà che avevano accompagnato e favorito la crescita pur disordinata e tumultuosa delle zone più deboli del paese.
Come è possibile non parlare in parrocchia, per esempio, di una metropoli Napoli che vive un degrado che soffoca la gente, cancella prospettive di progresso e di sviluppo, annulla quotidianamente la dignità dell’uomo, indebolisce le coscienze. Come è possibile non parlare, oggi, in parrocchia dell’unico argine forse non solo morale, ma concreto, quasi fisico, lasciatemelo dire, che è la Chiesa nel mezzogiorno, che è insieme pellegrina di speranza, difensore civico, coscienza critica delle istituzioni, protagonista appunto di un’evangelizzazione che, dalle parrocchie, dai luoghi del volontariato, dalle associazioni esce e deve sempre più uscire per strada, si coniuga e si deve coniugare sempre più ai bisogni della gente, per alimentare giorno dopo giorno quella religione della responsabilità a tutti i livelli, fortemente voluta da Giovanni Paolo II.
Era il novembre del 1990 e a Napoli, in una delle più esaltanti, lunghe visite storiche appunto alle diocesi italiane, qui il Papa scrisse una vera e propria Enciclica sul Mezzogiorno. Denunciò la degenerazione della vita pubblica ” che mina , disse, alla radice ogni prospettiva di speranza”.
Quanto tempo è passato, appena cinque anni ed è già storia. Si parla poco di quella “Enciclica”, una vera e propria enciclica, se ne parla poco anche nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nei nostri incontri.
I vescovi dopo la visita del Papa dissero, “il paese non crescerà se non insieme”; esortarono cattolici e non cattolici a leggere, per esempio, la questione meridionale, non solo sotto forma di questione di sviluppo sociale ed economico, di riforma del costume politico, di prospettive occupazionali, di fenomeni malavitosi abnormi e drammatici, ma, innanzitutto, come questione di crescita globale dell’uomo, nella sua dimensione culturale, sociale, morale, spirituale. Di questo, ancora oggi si parla poco nelle nostre parrocchie. Problema di conversione “delle” e “nelle” coscienze, in modo da privilegiare sempre più i valori dell’essere su quelli dell’avere e del possedere.
Sono temi che sotto i riflettori di una cronaca estremamente incalzante, alimentano anche le riflessioni della nostra diocesi.
Più volte lo abbiamo scritto, lo abbiamo detto, lo avete letto, lo avete ascoltato. La riflessione della nostra chiesa locale, con i nostri vescovi, ci ricorda che lo sviluppo è possibile solo nella solidarietà e, anche questi temi, spesso, vengono tralasciati nelle riflessioni parrocchiali.
Come non riproporre, per esempio, mi chiedo, sempre in riferimento all’impegno nel sociale, nel civile, da cristiani, l’articolazione delle diverse esperienze politiche, culturali, sociali; come non ricordare la centralità dell’uomo, quel primato dell’uomo sul lavoro, che cento anni fa ispirò la Rerum Novarum; come non riproporre quel ricco magistero sociale della Chiesa (l’ho detto prima può essere il primo passo per aprire diversamente, modernamente forse le porte di tante parrocchie oggi socchiuse, specialmente per i giovani). Come non riproporre quel Magistero, quella risposta, diciamo, evangelica alle istanze e alle attese della gente che bussa alla porta, alla luce del dramma occupazione, del dramma dei senzalavoro, della precarietà sociale, molto estesa in molte zone del nostro territorio.
Ecco, perché appare, oserei dire “storica”, l’azione della Chiesa di Napoli per la città di Napoli e va anche certo al di là di letture parziali che, spesso, certa stampa, protesa più alla spettacolarizzazione e sempre meno alla verità e alla qualità della notizia, da. E’ il grande dibattito di questi giorni, indubbiamente tutti leggiamo i giornali, ci si sofferma solo su passaggi relativi al rapporto politica-chiesa e non si entra mai nel merito di quello che la Chiesa fa e costruisce giorno dopo giorno (anche senza riflettori). Il pensiero va ai tanti parroci, ai tanti sacerdoti che, soli, danno ogni giorno risposte di vita, a tempo pieno.
Per Napoli, il ruolo dei cattolici è più che mai un ruolo storico, fondamentale: c’è una responsabilità morale, poi c’è una responsabilità politica, civile, sociale.
Rileggevo giorni fa quello che i vescovi hanno detto, l’ultimo appello al recupero del “senso di responsabilità dei laici” che vogliono impegnarsi e si devono impegnare nella società. E riflettevo perché spesso questi grandi documenti lasciano il tempo che trovano. Si fa una conferenza stampa, si fa una bella pubblicazione, la televisione ne parla, poi si chiudono in un cassetto, interessano sempre gli altri, ma mai noi stessi. Questa speranza, ci dicono, la “speranza” della responsabilità, è posta nelle nostre mani, è affidata alla nostra responsabilità. C’è un passaggio molto bello:
“E quanto mai urgente, indilazionabile che la coscienza morale venga formata al senso del dovere, del dovere civico e morale, la vita pone a tutti, a ciascuno diritti e doveri, possibilità e impegni; non è giusto denunciare solo l’assenza di responsabilità negli altri a cominciare dalle persone che hanno funzioni pubbliche, non è giusto accusare la distorta responsabilità degli altri se non si ha il coraggio di assumere ciascuno le proprie responsabilità e di portarle a compimento. Proprio dalla responsabilità personale del tutto indelegabile, è necessario ripartire per rifare il tessuto della moralità e della legalità.”
E’ un monito che interpella tutti, le nostre coscienze, il nostro essere nella società, il nostro essere cristiani, anche nello stare in parrocchia nel fare comunità.
Il senso di responsabilità personale, credo che questo sia il monito più forte lanciato dagli uomini di chiesa in questi ultimi anni, un monito che bisogna raccogliere, io lo raccolgo così da cronista, mi si chiede anche di fare un flash sulla responsabilità in questo diciamo breve viaggio, in questo percorso, dell’essere cristiani e parrocchiani, uomini di parrocchia, oggi, nel 1995, alle porte del terzo millennio cristiano. Mi limito soltanto a una riflessione, riflessione che un vecchio cronista cattolico, Angelo Narducci, ci lasciò in eredità:
“Come cattolici, scriveva, ci ostiniamo a lavorare come artigiani sulla parola perché sia onesta, perché non tradisca, perché corra in qualche modo libera sulle labbra, nasca da coscienze illuminate, severe, semplici, coerenti, non cerchiamo il successo, ma interlocutori…”
Credo che si possa andare oltre.
Ultima annotazione: passare da un’informazione urlata a un’informazione pensata. Questa è la scommessa per chi, in questo momento, vuole fare informazione, ma anche per chi vuole ricevere informazione. E qui non si tratta solo di un codice deontologico. Credo che non si tratta solo di carta dei doveri, di gran giurì, normative, commissioni, ma credo che sia fondamentale alimentare una forte presa di coscienza singola e collettiva degli operatori della comunicazione su questi temi.
Il “vostro lavoro è testimonianza di una chiamata” e ha una funzione di crescita collettiva. Ci hanno ricordato, proprio in questi mesi, in giro per l’Italia uomini di chiesa e intellettuali. Come giornalisti cattolici stiamo tentando un’operazione, stiamo tentando di coinvolgere le chiese locali e i vescovi locali sui temi della comunicazione: diamo un piccolo “compitino”, una Lettura Paolina (già otto, fra cardinali e vescovi, l’hanno magnificamente espletato) e portiamo anche i giornalisti laici in giro per le città italiane.
Abbiamo fatto così otto Letture nelle maggiori città italiane, adesso entriamo in provincia, ha avuto successo, è un piccolo seme.
Ci ha detto il Cardinale Martini a Milano, ultimamente, riprendendo una delle pagine più belle, scritta da un non-giornalista, sui temi della comunicazione in una lettera pastorale che conoscerete certamente, “Il lembo del mantello”: “Io mi aspetto che si ritorni sui fatti, mi aspetto come talora avviene che la TV e i giornali propongano iniziative, che incanalino la spinta naturale della gente alla solidarietà, che le stesse immagini e le notizie drammatiche fanno nascere. Mi aspetto che si dia conto anche dello sviluppo delle vicende, talvolta pure il bene e una conclusione positiva possono fare notizia. Un altro aspetto della cronaca e dell’attualità che mi sconcerta e mi mette a disagio, riguarda le immagini che violano la privacy, non posso accettare la leggerezza e la mancanza di tatto con cui la telecamera o un registratore entrano talvolta nelle case, frugano nei sentimenti delle persone. Come è possibile chiedere a una madre, cui è appena morto un figlio, “Come sta signora? Che cosa prova in questo momento?” Il mio disagio cresce quando vedo che si tratta per lo più di persone semplici, incapaci di difendersi. Avverto che esiste qualche cosa di invalicabile e sacro che non è dicibile e va rispettato, non fermarsi e commettere violenza anche se lo scoop è assicurato.”
Intervento dell’avv. Raffaele Cananzi
Care sorelle, cari fratelli, sacerdoti e laici, svolgerò il compitino che mi è stato affidato. Lasciate, però, che prima di tutto nel salutare voi (molti di voi li conosco da venti anni e seguo con attenzione, con passione, con amore, con affetto il cammino di questa parrocchia) vi dica prima di tutto con il cuore: rallegriamoci nel Signore perché settanta anni di vita parrocchiale sono un fatto importante per laici e per preti; perciò, rallegriamoci nel Signore e facciamoci gli auguri, a noi come comunità che in questo momento viva, attraverso questo difficile passaggio della nostra storia italiana e napoletana; facciamoci gli auguri in rappresentanza di tutte quelle comunità che in settanta anni sono passate nella storia e nella vicenda di questa parrocchia; facciamo gli auguri ai nostri sacerdoti: a don Mango, che attualmente è il responsabile sacerdote di questa parrocchia: a don Tabasco che l’ha seguita con gioia e con grande responsabilità per tanti anni e attraverso di loro ai sacerdoti viventi e non viventi che ricordiamo al Signore per l’opera che hanno prestata qui, per l’opera fedele, per l’opera fattiva, per l’opera costante, per l’opera soprattutto tipica del sacerdozio ministeriale, che è l’opera di essere al servizio dei laici, di quei sacerdoti comuni che sono, appunto, i laici.
Questa è la grande ricchezza che, in definitiva e sostanzialmente, la parrocchia presenta come luogo della dimensione spirituale e religiosa in cui e attraverso cui vive la realtà della comunità degli uomini che è stanziata in questo territorio. Bisogna sempre intrecciare la vita spirituale e religiosa che la parrocchia nella sua entità più profonda esprime con la dimensione storica, con la dimensione diciamo sociale che la vita degli uomini in questa realtà, in questo luogo di Napoli, in modo particolare, ha espresso ed esprime.
Guai a guardare una realtà della parrocchia in qualche modo distinta e separata dalla vicenda degli uomini che la parrocchia, la comunità parrocchiale esprime; quasi che noi volessimo rinchiuderci nel nostro piccolo per stare bene, per stare tranquilli dimenticando invece quel grande rispetto al quale noi siamo e dobbiamo essere anima, vita, sostanza, quasi richiamando la lettera a Diogneto anche in questa realtà piccola di chiesa, in questa porzione di Chiesa per la quale noi ci situiamo come l’anima nel corpo sociale, che è il corpo di questa parrocchia.
Ecco io credo che solo attraverso una chiara impostazione di questo rapporto è possibile capire la ragione per la quale prima Giovanni XXIII e poi Giovanni Paolo II nella “Christi Fideles Laici”, ricordando l’espressione del suo predecessore, indicano la parrocchia come “la fontana del villaggio”, proprio perché è il luogo al quale, in definitiva, c’è bisogno che tutti si avvicinino, al quale c’è bisogno che tutti quanti in qualche modo vengano ad abbeverarsi per prendere appunto l’acqua della vita, che è l’acqua attraverso la quale è possibile vincere la morte, vincere il peccato, avere oltre l’orizzonte della storia l’orizzonte dell’eternità.
Ecco perché è molto importante avere riguardo a questo dato fondamentale: la parrocchia è una realtà religiosa e spirituale che costituisce appunto l’anima di questo corpo sociale che è la vita della comunità degli uomini legata a questa vicenda parrocchiale.
L’espressione della “fontana del villaggio” è da Giovanni Paolo II usata in quella magnifica esortazione apostolica che è la Christi Fideles Laici che il Papa ha dettato per la Chiesa universale a conclusione del Sinodo del 1987 sulla vocazione e sulla missione dei laici.
Io ho un ricordo particolare di questo Sinodo perché ho avuto la grazia di essere uno dei sessanta uditori laici di quel Sinodo universale e posso dirvi che l’impegno dei Padri sinodali e di quanti in qualche modo eravamo cointeressati al cammino sinodale, è stato quello di fare in maniera tale da sviluppare in quella realtà mondiale l’incarnazione di quanto il Concilio aveva già detto sui laici.
Voi sapete che alcuni famosi teologi, non soltanto qualcuno che passava e che leggeva per caso il Concilio, ma chi studia approfonditamente queste cose, ha detto che il Concilio Vaticano II può definirsi il Concilio del laicato e anche il Concilio della Chiesa locale, proprio perché ha messo in luce, a differenza di tutti i Concili precedenti, queste importanti, queste essenziali presenze nella vita della Chiesa.
A me spetta ed è mio compito offrirvi qualche considerazione e riflessione sul fedele laico e la parrocchia; più che all’esterno della parrocchia (nel senso di essere elemento di missione nella vita parrocchiale) come vive e che cosa fa il laico dentro la parrocchia. Io credo che questo è il tema che il Concilio ci ha offerto e che nei trenta anni che sono passati dalla conclusione del Concilio a oggi non siamo ancora riusciti compiutamente ad attuare. Dobbiamo avere però, la voglia, l’ansia, l’aspettativa profonda, il desiderio di attuare nell’arco degli anni che ci stanno davanti ed in particolare, come ci ricordava don Mango all’inizio, nel corso di questi cinque anni che ci separano da questo terzo millennio della storia cristiana che si affaccia all’orizzonte del mondo.
Cerchiamo allora di fare qualche riflessione su questo punto tanto per guardare al nostro passato e tanto per darci, diciamo, un appuntamento da qui a cinque anni e per vedere come siamo riusciti meglio ad attuare quanto il Concilio e la Christi Fideles Laici ci suggeriscono su questo tema della presenza del laico nella vita della parrocchia.
Anzitutto la parrocchia è luogo di fede : è il luogo della fede e della formazione cristiana. E’ il luogo in cui il laico viene ad attingere attraverso il magistero del sacerdozio ministeriale, che è quello del parroco, che è quello del vescovo, che è quello dei sacerdoti la parola di Dio, ad assumerla, a farla propria, ad interiorizzarla, a renderla pane, costante e quotidiano, della propria vita.
Non c’è un luogo più privilegiato, nell’ambito della vita delle famiglie e nell’ambito della vita delle singole persone, della parrocchia come luogo appunto della fede la quale scaturisce sempre dal maggiore approfondimento e dalla maggiore interiorizzazione della parola di Dio. E’ quella parola di Dio che noi dobbiamo assumere e qui c’è l’impegno dei preti e dei laici attraverso una catechesi organica e sistematica che ci consenta di formarci come cristiani maturi per il Duemila, che si affaccia, appunto, al nostro orizzonte.
E’ un dato questo importantissimo, rilevantissimo; non saremo portatori del Vangelo della carità e della carità del Vangelo nella vita del mondo ed, in particolare, nell’ambito della nostra vita parrocchiale se non saremo stati capaci di assumere nella parrocchia la dimensione di quella Parola che è tagliente, che è la Parola di Dio che spacca in qualche modo il cuore dell’uomo nel senso che ci induce a guardarci in profondità per sapere poi offrire in massima donazione quello che il Signore attraverso la Parola ci trasmette.
Una catechesi organica e sistematica che ci renda cristiani adulti formati nella fede, una catechesi che ci faccia capire che la nostra Liturgia Eucaristica quella che alcuni di noi in qualche modo frequentano anche quotidianamente, non può mai essere un’abitudine ma deve sostanzialmente essere un bisogno profondo della nostra vita spirituale, perché sappiamo che attraverso questo scambio fra Parola e Sacramenti, fra Parola e Liturgia è la ricchezza, la profondità, è l’ampiezza, è l’orizzonte della nostra vita spirituale.
Perciò, anzitutto per il laico la parrocchia sia luogo della fede e della formazione cristiana. La parrocchia sia, nel contempo, centro della comunione. Anche qui un dato essenziale, importante: non ha senso tanto dire e distinguere che c’è certamente il ministero del presbitero, il ministero del vescovo, il ministero del religioso e della religiosa, il ministero del laico. Tutto questo ha senso nella misura in cui alla distinzione e quindi al proprio di ciascuno sappiamo poi attribuire un cammino, un itinerario, una forza, un’energia propria che si sappia però poi coniugare, armonizzare, vivere, integrare in un dato che è il dato che costituisce la Chiesa, che è il dato della comunione.
O noi riusciamo (ed ecco la grandezza del mistero nel quale siamo inseriti) a costruire pienamente questo “cuore solo e quest’anima sola” che è certamente tutta la Chiesa, ma che per quanto ci riguarda è la nostra parrocchia, oppure non avremo utilizzato bene i carismi dello Spirito Santo, le nostre personali vocazioni, non avremo bene esercitato il ministero e quindi sostanzialmente quello che è proprio di ciascuno di noi.
Bisogna costruire questa parrocchia come centro della comunione, in cui siamo tutti presenti, siamo tutti essenziali come dice il Concilio, ciascuno naturalmente con il suo ruolo, ciascuno nella distinzione e con la propria vocazione, per la ricchezza comune. Guai se il laico fa in parrocchia il mezzo prete! Il laico in parrocchia (e lo vedremo meglio più avanti) deve essere laico, cioè con la sua particolare vocazione; ma guai se il laico in parrocchia pretende di sostituire il prete, perché allora a quel punto noi avremo sostanzialmente non fatto bene il nostro servizio di laici, avremo invaso il campo, avremo occupato e non avendo il dono specifico perché qui non si tratta di un fatto sociale, ma si tratta di un dono misterioso, che è quello che ci viene attraverso il Battesimo, per la vocazione battesimale che ciascuno di noi ha, non avendo attuato bene la nostra parte e invece avendo invaso il campo degli altri, finiremmo per non portare nessun vantaggio e nessun aiuto alla crescita della comunione ecclesiale.
Dobbiamo perciò restare ciascuno nel nostro, nella pienezza del nostro, ma saper coniugare questa pienezza nell’insieme, in maniera che nasca la profondità dell’armonia nella distinzione.
Ecco allora la parrocchia centro della comunione in cui la varietà è ricchezza e la molteplicità è armonia. Sulla base delle nostre esperienze parrocchiali (anch’io vivo in parrocchia, ho vissuto in parrocchia, so bene quello che accade concretamente) ben sappiamo che ci possono essere certamente delle incomprensioni, dei passaggi difficili tra gruppi, associazioni, movimenti rapporti di sacerdoti e laici; non c’è dubbio, questo fa parte della storia del cammino della Chiesa. Mi pare, però, che il punto d’obbligo che ciascuno deve avere è quello di saper rientrare in se stesso per sapere poi offrire nella comunità parrocchiale quello che è proprio di ciascuno, in maniera che così si ricomponga l’armonia del tutto.
E’ questa la grande ricchezza che costituisce, anche per ciascuno di noi, il senso della Chiesa; ecco che cosa dobbiamo imparare in parrocchia: il sentirci Chiesa, sentire nella Chiesa, sentire con la Chiesa, sentire per la Chiesa; posseduti dalla verità di Cristo ciascuno di noi deve sentirsi parte di questa chiesa, parte viva e vitale. Sentire la chiesa come frutto dell’amore e l’amore come frutto di questo sentirsi Chiesa; questo direi è un passaggio, un modo; non è un fatto teorico, non è un fatto intellettualistico; è un fatto diciamo di pathos profondo, di interiorizzazione, di mistero.
Bisogna che ci sentiamo accolti, coinvolti in questa storia religiosa anche del nostro tempo, in cui naturalmente il dato da considerare contrario alla religione non è l’ateismo di un tempo, che in qualche maniera ci forgiava e ci metteva sulla posizione o della difesa o, comunque, dell’attacco perché bisognava combattere qualche cosa; il dato terribile di questo tempo per cui il sentire religioso e il sentirsi Chiesa in qualche modo viene messo da parte dalla coscienza non solo dei laici, ma anche qualche volta dei preti, è il fatto che la grande indifferenza che ci circonda, ci rende in qualche modo amorfi, non capaci di capire che in questa indifferenza dobbiamo invece portare la nostra identità e identità di Chiesa e identità di sentire appunto con la Chiesa, di sentire nella Chiesa e di sentire per la Chiesa.
In questo senso, direi, il laico svolge il suo sacerdozio comune nella parrocchia e, cioè, in fondo svolge quello che è tipicamente suo. Riconosce al sacerdozio ministeriale, come insegna il Concilio, il fatto di formare e reggere il popolo sacerdotale: reggere nella carità, reggere nell’amore, reggere nel servizio; non reggere nell’arroganza, non reggere nell’utilità privata o dei gruppi, ma reggere nell’utilità comune, nell’utilità di tutti. Ecco il laico per un verso riconosce che il sacerdozio ministeriale forma e regge il popolo sacerdotale, per altro verso svolge il proprio compito (ecco il dato essenziale sul quale bisogna richiamare l’attenzione di ciascuno di noi che siamo laici) che è quello di fare in modo che la nostra vicenda ecclesiale sia una vicenda dialogante con il mondo, capace di incarnazione e, quindi, capace di assumere tutta la storia di questo tempo, tutto si direbbe con termine conciliare il secolo, nel senso che è compito proprio dei laici portare nella vita della parrocchia l’essenza del mondo.
Ecco perché dico che non bisogna fare i mezzi preti; noi siamo padri di famiglia, lavoratori, gente che vive tra la gente, abbiamo l’esperienza della vita delle famiglie in questa zona di Napoli, abbiamo in qualche modo il polso della vita dei lavoratori di questa zona di Napoli, il polso della vita dei disoccupati, il polso della vita delle famiglie che stanno in disagio, dei divorziati, dei separati; noi siamo coloro i quali vivendo compiutamente questa realtà sociale e questa realtà civile, dobbiamo trasferire nella vita della parrocchia questa ricchezza di esperienze non perché questo diventi un fatto culturale nella vita parrocchiale, ma perché i piani pastorali, nei cinque anni che abbiamo davanti da oggi fino al duemila, siano fatti in maniera tale che non stiano tra cielo e terra, ma stiano invece in quella realtà che guardando al cielo tocchi pienamente la terra, perché la terra venga sostanzialmente arata, dissodata, perché tutto quello che si muove nella nostra realtà pastorale sia fortemente smosso e, in qualche modo, sia fortemente inquietato da questa presenza del Vangelo, da questa presenza di una vera carità.
Questo è il compito dei laici; non è quello di stare a guardare. E’ quello di assumere, di stare dentro, di capire, di portare questa realtà che abbiamo capito e compreso nella vicenda della parrocchia, di interrogarci fra di noi, di dialogare, di cercare di trovare le strade più opportune e più propizie perché non soltanto la parola buona (che è sempre una cosa encomiabile) ma perché soprattutto la Chiesa nella sua interezza, parola, sacramento, carità, profezia, ricchezza del futuro, speranza del futuro germini una novità nel cammino della nostra comunità parrocchiale.
Questo è lo sforzo che dobbiamo porci programmaticamente davanti rispetto ad un momento storico che è certamente un momento di transizione. Come tutti i momenti di transizione è difficile, ma mai difficile più di tanti altri momenti che la storia della nostra patria e anche della nostra Chiesa e anche della Chiesa di Napoli ha attraversato.
Non pensiamo di essere più svantaggiati di tanti altri che sono passati in altri tormentati momenti (pensiamo ai periodi della guerra, pensiamo come fatti sociali di gravità enormi pensiamo ai periodi delle pestilenze, delle varie malattie). Sono stati momenti storici in cui abbiamo avuto una società dispersa e frantumata per varie altre ragioni; oggi ci sono altre ragioni per cui questa società in qualche modo non respira a pieno, respira affannosamente.
E noi siamo lì chiamati a portare quella boccata di ossigeno che è indispensabile per riprendere fiato e per riprendere speranza.
E questo però lo facciamo come comunità e, quindi, con quella capacità di ciascuno di noi di portare quello che può, metterlo in comune. Ecco il momento della “tenda”, come ricordava il nostro cardinale Ursi in una sua lettera pastorale qualche tempo fa. La pastorale della tenda e la pastorale della strada; ecco il momento della tenda in cui noi laici siamo chiamati con il sacerdote che ha la responsabilità del cammino parrocchiale, noi a portare le nostre esperienze e insieme a studiare, a vedere come concretamente possiamo sperimentare. Certo le soluzioni immediate non le troviamo, ma possiamo sperimentare insieme, andare avanti insieme per ricercare le strade, per poter essere efficaci perché la parola di Dio diventi efficace nella nostra zona.
Questa è direi la funzione tipica del laico e alla quale ho voluto fare immediatamente riferimento, superando altre cose che avevo pure appuntato; è la funzione tipica del laico nella vita della parrocchia. Nell’esercizio di questa funzione globale ai laici possono essere affidati compiti particolari. Può essere affidata ai laici la catechesi parrocchiale. Può e deve spettare a laici preparati in questa materia. Si mettono in azione per fare: la catechesi associativa (animatori di catechesi); la catechesi parrocchiale (catechisti).
Soprattutto, direi, due tipi di catechesi fondamentale (si connettono anche con il piano pastorale della nostra diocesi) dovrebbero curare i laici maturi, preparati nella fede: la catechesi coniugale e la catechesi prematrimoniale. Non c’è nessuno meglio di una coppia di sposi che stia vivendo la vicenda matrimoniale e, nello stesso tempo, che abbia maturato insieme un cammino di fede, che possa essere in qualche modo, tra virgolette, “maestra” ad altre coppie che si preparano a vivere una vita in comune. Noi chiediamo molto spesso questo ai sacerdoti; e su questo versante ci possono dare moltissimo, ma probabilmente con un’altra angolazione che è diversa da quella che due sposi, che in realtà hanno vissuto e continuano a vivere la vita matrimoniale, possono certamente offrire a chi fa, a chi tenta di fare questo stesso cammino.
Accanto a queste due catechesi (coniugale, per chi è già coniugato; prematrimoniale per chi si prepara al matrimonio) una catechesi sociale.
La catechesi sociale non deve mancare nelle nostre parrocchie, per la fondamentale ragione che il Papa ci ha spiegato, facendo anche estrema chiarezza su questo argomento: che la dottrina sociale della Chiesa non è qualche cosa di estraneo al momento teologico, ma fa parte della teologia morale; e per i laici di questo tempo la dottrina sociale della Chiesa diventa un elemento fondante per capire come ci dobbiamo orientare soprattutto in una congerie, quale è quella che abbiamo davanti, in cui alcuni punti di riferimento nel sociale, nel civile e nel politico vengono meno.
Noi abbiamo una fonte preziosa che è appunto la dottrina sociale della Chiesa, alla quale bisogna ritornare non tanto perché intellettualisticamente dobbiamo assorbire le nozioni che questa dottrina ci offre, quanto perché concretamente attraverso questo quadro teorico, che la dottrina sociale ci offre, riusciamo poi a trovare, sempre attraverso quel lavoro comune, quel lavoro di gruppo, le possibilità di incarnazione di quel principio nella realtà che ci sta accanto. E allora dobbiamo fare diventare la solidarietà non una parola vaga, non una vaga aspirazione del cuore, ma dobbiamo concretamente far diventare questa solidarietà un canale concreto, attraverso cui i gruppi parrocchiali, le famiglie si spendano (non tanto nel mondo, non tanto in Napoli, ma) in questa zona, la parrocchia, perché tutti sentano che c’è una carità viva che è segno della presenza di Dio che per noi è anche l’anima della solidarietà. La carità è molto più grande della solidarietà: la carità cristiana ci chiede quella gratuità che non vuole risposta; invece, la solidarietà (qui è la differenza concettuale tra le due cose) è quella forma sostanziale di carità che in definitiva però dalla carità trae luce, ma che carità non è nel senso che richiede una risposta responsabile (giustamente pensate alla solidarietà del Nord verso il Sud che non può essere assistenzialismo proprio perché questa solidarietà deve essere spesa nel senso di richiedere al Sud di mettere in atto tutte le sue potenzialità perché quello che ci viene dato non sia sprecato, ma tutto invece venga ridonato in una risposta di ricchezza che noi siamo capaci di dare non solo in umanità, ma anche in capacità di produttività). Tutto questo io credo dobbiamo farlo fruttificare come laici nella nostra vicenda parrocchiale. Chiudo perché sto andando oltre il tempo che mi è stato assegnato. Nella nostra vicenda parrocchiale la presenza dei laici diventi non soltanto una presenza quantitativa (voi vedete quanti siamo qui; rispetto ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose che sono presenti, noi laici certamente rappresentiamo il 90%; e così è nella realtà della Chiesa, ma il problema non è questo).
Certamente abbiamo bisogno che chi è investito della funzione di offrire la parola di Dio e di esercitare il servizio ministeriale dei sacramenti sia a disposizione di questa grande comunità. Ma questa grande porzione della comunità, proprio perché grande quantitativamente, non per questo deve venire meno a quelli che sono i suoi compiti specifici. Il laico deve pienamente inserirsi nel mistero di Dio e della Chiesa.
Il terzo millennio cristiano, quale il Papa ce lo prefigura, sarà il millennio dei laici (non che metteremo da parte vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose) nella misura in cui utilizzeremo il ministero comune nella maniera dovuta e daremo le nostre risposte per quello che la nostra vocazione battesimale ci richiede
Se saremo capaci di dare una risposta di questo tipo, al primo millennio dei monaci, al secondo millennio dei presbiteri il terzo millennio accluderà i laici, nel senso che in questi millenni le funzioni di queste realtà ecclesiali si sono espresse in maniera in qualche modo preminente senza cancellare le altre, ma mettendo in luce le peculiarità di ciascuno.
Ciò che abbiamo davanti ci richiede questa responsabilità: per cui dobbiamo vivere fecondamente, fortemente la vita nella nostra parrocchia e della nostra parrocchia, per essere sempre più laici maturi perciò capaci di fede e capaci di essere missionari di quel Vangelo della carità e di quella carità del Vangelo di cui il mondo di oggi ha particolarmente bisogno.
Intervento di Mons. Luigi Pignatiello
Questo incontro non vuole essere puramente celebrativo. Il Parroco ha detto che il 70º della Parrocchia è stato un pretesto per qualcosa di più. Questo ha avuto due coincidenze importanti: la prima l’ha ricordata il Parroco stesso: cioè la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Tertio millennio adveniente per la preparazione remota e prossima al grande Giubileo dell’anno duemila. La seconda coincidenza è la preparazione al terzo Convegno ecclesiale nazionale che si terrà a Palermo nel mese di novembre di questo anno.
E’ tutta la vita delle nostre istituzioni, delle nostre comunità, delle nostre strutture che è impegnata nel cammino segnato da questi due avvenimenti. La coincidenza, dunque, è provvidenziale e deve essere fruttuosa.
Il mio compito, in questa assemblea, è quello di fare una riflessione in termini di teologia pastorale, cioè di riflessione critica sulla fede della comunità e di progettualità operativa di questa comunità parrocchiale.
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Partiamo dal concreto. Si dice che la parrocchia è in crisi. Quale crisi? Crisi di funzionalità come struttura amministrativa? Occorre intendersi. Se di crisi occorre parlare, essa va riferita al carico eccessivo che viene riversato su di essa per cui essa non riesce più a far fronte a tutte le richieste e a tutte le domande che le vengono rivolte per le motivazione più diverse. La Parrocchia ha finito per accollarsi il compito di ovviare a tutte le carenze della organizzazione sociale e della pubblica amministrazione. Con la conseguenza della sottrazione di energie e risorse ai suoi compiti specifici.
Alcuni decenni addietro si deplorava che la parrocchia fosse considerata e si comportasse come una specie di stazione di servizio per la distribuzione di beni spirituali. Oggi la distribuzione di beni spirituali sembra essere battuta quantitativamente e qualitativamente dalla distribuzione di beni materiali, sia pure di notevole rilevanza sociale. Non è detto che la parrocchia non possa e non debba continuare ad essere una stazione di servizio; ma è chiaro che non può essere solo e neppure prevalentemente stazione di servizi sociali.
La parrocchia è in crisi perché sta vivendo una stazione di trapasso, che evidenzia l’urgenza di una vaccinazione, di una potatura e di una chiarificazione.
Una vaccinazione: con il tempo anche le strutture della Chiesa e anche le comunità ecclesiali sono esposte al rischio delle malattie; per cui, di tanto in tanto, hanno bisogno di essere vaccinate: La vaccinazione porta la febbre, crea disagi, costringe a letto; però, alla fine, ci si ritrova arricchiti di anticorpi per affrontare meglio gli eventi futuri.
Una potatura: gli alberi mettono rami e foglie, la cui moltiplicazione crea problemi di proporzione rispetto alle radici e all’intero sistema di alimentazione dell’albero. Perciò di tanto in tanto occorre ricorrere alla potatura. La parrocchia, come si diceva prima, ha subìto un accrescimento forse eccessivo di attività, una aggregazione ambigua di persone e di entità al di là di quelle che sono le funzioni sue proprie come struttura di comunione e di evangelizzazione e ha corso il rischio di rimanere soffocata sotto il peso di rami e di foglie, che rendono difficile la produzione di frutti.
Occorre, allora, una chiarificazione per la evidenziazione e la distribuzione dei ruoli nella comunità che vive nella parrocchia e intorno alla parrocchia. Occorre chiarire una buona volta il discorso sul rapporto tra i chierici e i laici. Ho avuto spesso l’impressione che esso abbia alimentato tendenze rivendicazionistiche da una parte e tendenze soffocatrici dall’altra in un circolo vizioso e in una spirale perversa senza sbocchi positivi possibili. E’ stato persino detto che, dopo il primo millennio di marca monastica, il secondo di marca presbiterale, il terzo sia di marca laicale. Personalmente ritengo che questa previsione sia infausta così come infauste sono state le esperienze faziose precedenti. Mi auguro che il terzo millennio sia finalmente globalmente e plenariamente ecclesiale, in cui si chiariscano e si rispettino nella loro varietà i molteplici carismi e ministeri e si superino non solo le divisioni tra le diverse confessioni cristiane, ma anche quelle interne della Chiesa cattolica.
A questo fine, occorre che si superi un concetto molto diffuso e molto ambiguo: quello della collaborazione tra clero e laicato, per il quale il collaboratore opera sempre in stato di subordinazione, senza autonomia, con scarso riconoscimento di fatto della dignità del suo lavoro.
Occorre passare dalla collaborazione alla corresponsabilità. Il che non significa che non debba esserci un coordinamento dei diversi ruoli, che la parrocchia debba essere un’orchestra senza direttore, in cui ognuno suona per conto proprio e quello che vuole. L’azione pastorale deve essere sinfonica. Essa esige un direttore, che è previsto dalla stessa economia sacramentale che regge ed alimenta la vita della comunità ecclesiale. Il direttore di questa orchestra, tuttavia, ha pari dignità dei maestri suonatori dei diversi strumenti.
C’è da chiedersi, a questo punto, quali sono i corresponsabili dell’attività pastorale della parrocchia. Ed è questo uno dei punti cruciali della riflessione sulla crisi della parrocchia e sulle prospettive del suo superamento dopo la vaccinazione e la potatura. C’è una risposta altrettanto semplice quanto superficiale ed illusoria: tutti i battezzati, in forza e a seguito del Battesimo e, poi, della Confermazione, sono e devono essere corresponsabili. Ciò sarebbe vero che al Battesimo si arrivasse dopo aver percorso responsabilmente il cammino di iniziazione cristiana. Ma, purtroppo, il Battesimo, come del resto gli altri Sacramenti, si distribuisce a buon mercato. Perciò in attesa che eventi per ora non prevedibili, ma del cui avvento si scorgono segni lievi ma inequivocabili, occorre distinguere, tra i battezzati viventi nel territorio, quanti, avendo preso coscienza del dono del Battesimo, sono aperti ad una vera assunzione di corresponsabilità e a rispondere alla chiamata per l’esercizio di una missione. Chi ha coscienza di questa vocazione e missione deve assumersene la responsabilità e gestirla nel quadro della corresponsabilità di tutto il sistema pastorale della parrocchia.
Non basta più dare una mano ai preti; bisogna che tutte le mani dei preti e dei laici consapevoli, che hanno cioè avvertito e accettato questa vocazione con tutte le implicazioni che ne derivano, si mettano in movimento.
C’è ancora un problema di progettualità concreta della parrocchia: occorre che la carica di energie pastorali accumulata nella parrocchia esploda e si renda presente nel territorio: Bisogna che la pastorale parrocchiale diventi missionaria.
Ho visto le bozze dell’Annuario di questa parrocchia ed ho constatato la quantità di operatori pastorali che vi sono elencati. Sono tanti. Forse ne servono ancora altri: però già siete tanti. Mi domando se tutti questi operatori pastorali, oltre a sentire la disponibilità ad essere genericamente annunciatori del Vangelo, hanno anche la disponibilità ad essere missionari, cioè ad essere mandati, ad andare, a diffondersi sul territorio per sviluppare questa attività pastorale. La parrocchia in quanto struttura è il centro dell’implosione della comunità; ma è anche il centro di quel big bang che fa esplodere tutta questa ricchezza e la diffonde sul territorio, esprimendo così la concretezza della corresponsabilità dei battezzati consapevoli del dono e della vocazione ricevuti.
Affinché tutto ciò si verifichi è necessario che il progetto pastorale parrocchiale sia unico e comune: non inventato dal Parroco, beninteso, ma inventato dal Consiglio pastorale parrocchiale, che è l’espressione di tutte le forze vive della comunità parrocchiale e che tiene conto delle esigenze concrete della popolazione locale, ma anche delle indicazioni programmatiche del Vescovo della diocesi e dell’Episcopato nazionale.
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Con questo progetto pastorale la parrocchia cammina verso il grande giubileo del 2000, che segnerà l’ingresso nel secolo XXI e nel terzo millennio della storia cristiana.
A sostegno del cammino e dell’impegno di rinnovamento pastorale interviene il terzo Convegno ecclesiale nazionale per il quale l’Episcopato italiano ha indicato quattro obiettivi e cinque vie privilegiate o scelte preferenziali da seguire, nel più ampio concerto della “nuova evangelizzazione”.
Il tema del Convegno ecclesiale nazionale di Palermo riprende e puntualizza gli orientamenti pastorali che i Vescovi offrirono alla Chiesa italiana per gli anni ‘90. Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia. Tema di grande attualità che coniuga insieme tutte le urgenze del momento storico che, come Chiesa e come comunità politica, stiamo vivendo.
I quattro obiettivi indicati dall’Episcopato sono: la formazione, la comunione, la missione, l’interiorità. Le vie preferenziali sono: cultura e comunicazione sociale, impegno sociale e politico, scelta privilegiata dei poveri, famiglia, giovani.
Non possiamo, ora e qui, sviluppare questi temi, che certamente costituiranno oggetto della riflessione di questa Comunità parrocchiale nei prossimi mesi per la puntuale formulazione del piano pastorale parrocchiale in comunione con tutta la Chiesa italiana.
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Una celebrazione guarda piuttosto al passato, ne fa le lodi in maniera più o meno obiettiva. Un progetto invece si lancia verso il futuro. Il settantennio della vostra parrocchia ha questo significato progettuale che comporta l’impegno di affrontare la crisi della parrocchia, della vostra parrocchia, di una parrocchia che ha solo settanta anni, ma che ha una storia esaltante, che è stata additata a Napoli come parrocchia-pilota, come emblema di organizzazione dell’azione pastorale. Però, con il passare del tempo, anche i piloti, se non si aggiornano, corrono il rischio di perdere l’orientamento, ed anche gli emblemi, se non sono lucidati di tanto in tanto, perdono il loro splendore.
La celebrazione dei settanta anni della vostra parrocchia, per pretesto che sia, costituisce l’opportunità di vaccinare, potare e chiarificare natura e funzione delle strutture e reale consistenza della comunità. E inoltre occasione per contarvi nella chiarezza del senso di appartenenza e della volontà di impegno. Gesù Cristo non ha fatto assegnamento su masse di Apostoli, ma su dodici Apostoli più settantadue Discepoli: piccolo gregge, pugno di lievito, pizzico di sale, e con questo modesto apparato ha cambiato la storia. E ha stabilito un criterio: deve esserci sproporzione tra le forze umane impegnate e l’obiettivo da raggiungere, altrimenti abbiamo l’impressione – e la presunzione! – che siamo noi a risolvere il problema della salvezza del mondo, mentre la salvezza del mondo è operata sempre e solo da Gesù Cristo.
Tutto questo mi suggerisce la teologia pastorale come riflessione sulla fede della comunità e come progettualità. E l’augurio che io faccio a questa comunità è che essa sviluppi questa riflessione e realizzi questo progetto.